Gadda e la contabilità

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La lettera dello spedizioniere


Lo scritto dal quale Gadda trasse più godimento, e forse insegnamento? Non  I promessi sposi, non la Commedia e neppure una delle pagine dei suoi Porta e Belli. A folgorarlo fu la lettera di uno spedizioniere. Una lettera 

 

commerciale, una prosaica quanto complessa storia di carichi, bolle, smarrimenti, forse naufragi, risolta con pulizia, agilità, semplicità e aderenza lessicale al tema.

E la pagina di Calvino sul bottone? Uno tra i più alti esempi di maestria stilistica e capacità fantastica: l’universo evocato e riassunto nell’oggetto quotidiano.

Ci sono lettere eccezionali di Virginia Woolf che non sai se gelide o appassionate, sprezzanti o dolenti, sarcastiche o affettuose. E ogni volta che rileggo le trascrizioni  di un discorso di Kurt Vonnegut ho la sensazione che nessuno sia mai riuscito a tenersi così distaccato nell’esposizione di un dramma, così equidistante dai poli di un problema e nello stesso tempo a coinvolgere emotivamente senza spingere verso una posizione precisa ma solo rendendo consapevoli, tremendamente consapevoli, dell’enormità di alcune situazioni. Sornionamente. Con un understatement così magistrale da trasformarsi in pàthos. Sul mio comodino spicca il Barnum di Baricco. Un termine di paragone, vera ginnastica per la mente. Molti anni fa compravo Linea d'ombra solo per leggere i deliziosi pezzi di Baricco (beh, anche per gli articoli di Giacché). Memorabile quello su Haydn e il cannocchiale dell'astronomo. Ma i suoi romanzi mi fanno scompisciare dalle risate. Non che manchino di intuizioni geniali - o, come notato, di furbesche citazioni - ma sono chiaramente costruiti, ammantati, con grande evidenza, da un alone di poeticità, di "romanzeschità" a tutti i costi.

Egualmente,  non mi attraggono i libri di Vonnegut. E i romanzi della Woolf mi predispongono all’abbiocco.

Ma le Signore leggono romanzi. Se i palinsesti televisivi erano (sono) condizionati dalla casalingadivoghera, l’editoria italiana è tiranneggiata dalle Signore. Che queste non meglio individuate Signore preferiscano i romanzi non desta meraviglia. Né scandalizza che gli editori cerchino i romanzi per accontentarLe e che ci appiccichino copertine orrende perché alle Signore piacciono le copertine orrende.

Ma non si capisce perché un Malerba, desideroso di distinguersi dalla folla dei colleghi, abbia esclamato, anni fa: non chiamatemi scrittore, io sono un romanziere. A me il termine “romanziere” fa un po’ ridere: che c’è di meno serio di uno che fabbrica romanzi? Che ordisce trame invece di comunicare? Da un certo punto in poi il termine romanzo è divenuto un dispregiativo per indicare ciò che è vacuo, una intelaiatura che non trasmette verità. Fa pensare alle scrittrici di romanzi rosa. Una figura che si va rivalutando, pare. Ma io preferirei essere ricordato come un estensore di magnifiche lettere commerciali, di corretti verbali giudiziari, di impeccabili deliberazioni o magici headline piuttosto che come una Liala.

 

Borges trovava che tutti i romanzi, anche i più belli, implicano sempre dei riempitivi e vanno ritenuti una debolezza della carne. Immancabilmente, il suo Finzioni fu rifiutato dal lettore di una casa editrice di New York: quei racconti del signor Borges erano molto belli, ma perché non aspettare un lungo romanzo? Quel lettore, se campa, è ancora lì che aspetta. E aspettano in tanti. Sui più alti pennoni.

Si rassegnino: di Romanzi ne spuntano due o tre per secolo, se è il secolo adatto. Gli altri sudati manufatti che vengono definiti tali, o non lo sono – e risultano i migliori – o sono incompiuti (anche tra questi tanti libri eccellenti) o non si capisce bene perché siano stati scritti, a parte i giusti e necessari romanzi “di genere”.

Insomma, cosa c’è di più volgare di un romanzo? Una faccenda di personaggi, conflitti drammatici, evoluzione di psicologie e, soprattutto, tanto (falso) movimento. Egli disse, ella rispose, essi andarono.

Come pensare che in queste gabbie, attraverso quest’obbligo alle “storie”, possano passare le emozioni dell’autore, il suo sentimento del mondo, la sua carne?

 

Ma la ggente vuole storie. E nessuno ha il coraggio di dire, come Gadda, che i gesti e le opinioni degli altri non mi eccitano all’inchiostro. Così tutti ti chiedono il Romanzo. Qualcosa di corposo, di serio, di compiuto. Perché se non hai pubblicato un romanzo non esisti. E uno capisce che ci sono esigenze superiori (gli investimenti necessari all’investitura) e si adegua. Ma perché anche chi è riuscito a passare per la cruna editoriale con dei magnifici, fulminei racconti e ha ottenuto meritatamente successo e notorietà deve sentirsi “obbligato” al romanzo? Insomma, perché Aldo Nove si mise a incollare con la saliva i suoi splendidi grandi raccontini da una paginetta per creare un piccolissimo “romanzo”?

Non è solo un problema editoriale: i critici sono lì che aspettano il Romanzo. Costretti a occuparsi “soltanto” di stupendi racconti, eccezionali biografie, magistrali articoli, narrazioni che sconfinano nel saggistico – e viceversa – scrutano l’orizzonte in cerca del nuovo Guerra e pace. Perché, si chiedono, il nostro tempo non può essere racchiuso in una grande opera epocale, incasellato, spiegato e neutralizzato? Eppure tutti sanno che il mondo è ormai esploso, che non ci sono punti di vista univoci, morali correnti, ideologie imperanti. Forse c’è un sentimento del tempo ma non c’è il tempo. Soprattutto non c’è tempo per lunghi drammoni. La comunicazione non può che essere breve, frammentaria, istantanea. Una rappresentazione ordinata di questo mondo è impossibile. Se il Grande romanzo arrivasse, sarebbe falso: non racconterebbe il mondo. Non il mondo di ciascuno, certamente. Perché questo mondo non c’è. Niente romanzo ecumenico. Nessun tranquillizzante, museale compendio. Nessun condivisibile, inevitabile, libro di testo per le medie.

La filosofia ha rinunciato a ingabbiare il mondo in grandi sistemi, ma gli scrittori sono curiosamente condannati a provarci. Nessuno si sogna di rendere le vibrazioni del nostro tempo attraverso una sinfonia. Nessuno si stupisce, o si rammarica, che non si pratichi più la pittura a fresco, forma d’arte antichissima e gloriosa. Si trova naturale, invece, che il romanzo, con la sua brevissima storia, debba costituire una forma eterna. Prendete una qualsiasi storia della letteratura italiana, cercate i romanzi propriamente detti, praticate un confronto numerico (e non solo) e fatevi quattro risate. Ma chi avrà il coraggio di ricordare ai nostri accigliati critici che la nostra prosa consiste essenzialmente in Galileo e Machiavelli, cioè una sorta d’arte applicata, di linguaggio al servizio di scienza e politica,  e di Boccaccio e Aretino, cioè un’infilata di novelle e dialoghi di comari sull’arte (quella sì) più antica del mondo? E che il più famoso dei nostri romanzi, per restar romanzo deve ricorrere allo storico aggettivo qualificativo?

 

Io so di chi è la colpa. Non di Joyce, che ha tentato di chiudere la partita, ma di quelli che, avendolo capito, hanno commesso l’imprudenza di decretarla, la morte del romanzo. Poco importa che quasi tutti alludessero, figuratamente, a una trasformazione. Molti critici si sono ritrovati senza il giocattolo preferito. Una sorta di affronto personale. E ogni volta che hanno trovato qualche libro appena confortante, se ne sono usciti gongolanti: ve l’avevo detto io che non era morto per niente. Curiosamente, alcuni di quei critici avevano gioito in passato per la suddetta dipartita. Moriva, dicevano, il romanzo “borghese”. Non so se hanno rivalutato la borghesia ma il romanzo, quello sì.

Non mi garbano quelli che stilano certificati di morte. Se il romanzo deve sopravvivere, sopravviverà. Sarò felicissimo di salutarne di nuovi. Intanto smettano di sollecitarlo, o addirittura di inventarselo, e imparino ad apprezzare tutto il resto. Love the one you’r with cantava Stills.

 

Ora, strafregandocene del copyright, rieditiamo un accorato invito di Galimberti su un inserto domenicale del Sole 24 ore: “Se tanti autori, invece di scaricare libri come lava, si attenessero agli inizi, agli indizi, agli esercizi sapremmo cos’è un amore informe, cos’è un paesaggio lasciato in parte ignoto, cos’è un’intuizione non ancora diluita ed estinta… Questa radicale insoddisfazione, da cui le anime grezze si difendono portando fino in fondo il loro libro… è ciò che porta all’interruzione, dove la scrittura riflette della vita la sua infedeltà, la mancata risoluzione, perché s’è fatto deserto intorno all’ispirazione, rinuncia intorno alla parola, malinconia intorno alle sorti d’amore…”

   Aborro i Manifesti, le Nuovissime Normative e i relativi clan ma di questa sommessa aspirazione di Galimberti (che rimanda a Carmelo Bene, alla sua avversione per la compiutezza, al suo togliersi di scena, alla sua Assenza) bisognerebbe fare una bandiera. Soprattutto faccio mia questa definizione di romanzo: intuizione diluita ed estinta.

 

pubblicato su Zibaldoni.it

 

 

 

 

 

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Commenti: 2
  • #1

    Livio Romano (venerdì, 10 maggio 2013 17:07)

    Non solo le Signore, Elio. Anche i 44enni che si tentano alla scrittura. Io adoro i romanzi, e aspiro a farne. Questo non toglie che molti grandissimi scrittori mostrino squarci di Bellezza assoluta attraverso brevi componimenti, e mi piace qui ricordare che, quando, con amici o critici o forestieri snocciolo il rosario dei migliori scrittori pugliesi: indico te come eccezionale vergatore di folgoranti prosette letterarie. Concordo sul Sommo Gadda. Più che il Pasticciaccio, pagine di Sublime Letteratura son racchiuse nell'Adalgisa nel mentre parla, chessò, di pretenziose ville lombarde.

  • #2

    Elio Paoloni (sabato, 11 maggio 2013 20:46)

    Eh, le Ville, noi ne sappiamo qualcosa!