Abbronzati a sinistra - Tappa Leon-Santibanez

 

 

   Vaselina sui piedi, prima delle calze, e meticolosa operazione di allacciatura delle scarpe. Mi inginocchio davanti a Vera e tiro anche le sue di stringhe. Non può sapere, naturalmente, che occorre stringere verso la punta e anche in alto, discretamente, ma non nella parte centrale, per non premere sul orso. Elargisco raccomandazioni anche agli altri.

   Un po’ d’acqua in faccia nei bagni e ci avviamo. Mi soffermo davanti al distributore automatico ma mi si obietta che è meglio prenderlo al bar. Fuori dunque. Cosa c’è di più ovvio, uscendo alle sette per strada, del farsi un caffè? Non in Spagna: i gestori delle

cafeterias hanno una diversa opinione. Come può un italiano, un salentino (al paese mio ci sono bar che aprono alle quattro e mezza di mattina per servire i cacciatori, gli

agricoltori, i rientranti dalle notti brave) credere davvero (in astratto eravamo avvisati) che nel mondo civile non si possa prendere un caffè o addentare una brioche prima

delle nove di mattina? Le privazioni previste non sono mai davvero pesanti, neanche le più dure, ma quelle futili, se impreviste, possono sconvolgerti. Avremmo potuto digiunare serenamente nei villaggi, soffrire con gioia la sete tra le mesetas, ma scoprire che in una intera città non c’è un buco per schiarirsi le idee e regalare un po’ di zuccheri a muscoli e cervello prima di affrontare la tappa, la prima tappa, è destabilizzante. Però è un’alba d’entusiasmo, da ragazzi in gita, anche senza caffeina. 

   L’inizio, tecnicamente, è questo: stiamo già seguendo frecce gialle o conchiglie d’ottone incastonate nel lastricato innaffiato dagli spazzini. Di solito il Camino inizia con una messa, una benedizione. Ma noi siamo in una tappa intermedia e se pure a Leon si tenesse una funzione apposita ieri sera era troppo tardi e stamattina troppo presto. In ogni caso, non mi

ero neppure informato, nonostante le decine di compulsazioni di orari, mezzi, alloggi. A messa ci vado di rado: una volta il sacerdote faceva il sacerdote, era la punta avanzata di uno schieramento che lo delegava a parlamentare con Dio. Ora a Dio volge le spalle per condurre (dal basso, che gli altari sono spesso seminascosti negli agghiaccianti casermoni di cemento) un’assemblea di condominio, in un italiano scipito se non sciatto. Quando ancora non c’era stato il Concilio, Federigo Tozzi, in una fase della sua conversione, entrava in chiesa con una ‘sottilissima ironia allegra’ e si rimproverava di non compiere le pratiche rituali di tutti i credenti, cercando di spiegarsi perché le comuni preghiere gli sembrassero

“quasi insipide, ripugnanti”. Che direbbe ora, ascoltando canzoncine bamboleggianti con accompagnamento di chitarra? Dio mio, la chitarrina. Le suore mi avevano insegnato che all’elevazione si abbassa lo sguardo: non si fissa il Signore nella sua splendente, terrificante nudità. Ora si sbircia distrattamente quell’ostia prima di andare a prenderla tra le manacce

sconsacrate. Un gravissimo sacrilegio, sapevo io: ora ogni credente è un sacerdote. Todos caballeros. Poi ti invitano a scambiare un segno di pace. Un abbraccio? Un triplo bacio

all’ortodossa o addirittura sulla bocca, alla russa? No, una stretta di mano, una  borghesissima stretta di mano. Piacere, Rossi. Congratulazioni signora. Oh, che piacere

rivederla. Questa sarebbe liturgia? Naturale che tu preferisca pregare nel cesso di casa tua che è più accogliente, col water creato da un designer, erede dei grandi del Rinascimento. Almeno hai una testimonianza di bellezza, quella bellezza che, dice Benedetto XVI, è rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo. In ogni caso ci sarà tempo, per la contrizione: l’approccio, per ora, è turistico; consideriamo come striscione di partenza i manifesti della Plaza de Toros. 

   Appena presa la decisione avevo cominciato a compulsare siti: percorsi, equipaggiamenti e trasferimenti. Era stata esaminata la possibilità di partire da Burgos ma con due sedentarie assolute appresso non avremmo mai potuto farcela. Leon, dunque. Ci abbiamo messo mesi a prepararlo (a pregustarlo è più esatto). È stato quello l’inizio forse: diari di pellegrini, dritte, liste di equipaggiamenti. Valutavamo maglioni, pantaloni, giacche a vento, abbiamo

dovuto decidere se portare delle infradito, abbiamo optato per magliette tecniche, fibra, non cotone, abbiamo dovuto scegliere il peso dei pile; scottati da una precedente esperienza pamplonese (onirica più per il gelo che per lo stravolgimento degli orari: trentasette gradi alla partenza da Brindisi e dieci, undici, all’apertura dei cancelli dell’encierro) cercavamo di cautelarci, pur sapendo che avremmo anche tanto sudato. Ci siamo allenati con le nostre

scarpe da corsa e poi con gli scarponcini da montagna. Dopo aver visionato decine di foto e filmati per valutare il tipo di terreno prevalente ho convinto anche gli altri a optare per delle scarpe da corsa serie, tecniche: abbiamo fatto cinquanta chilometri per raggiungere il negozio specializzato, salire sulla pedana computerizzata, valutare la forma del nostro arco plantare, la percentuale di appoggio del peso e farci consigliare le scarpe più adatte. Marco era terrorizzato dalla fragilità del ginocchio: gli succedeva di ritrovarsi zoppicante dopo pochi passi. Ma le magnifiche scarpe con le suole a due piani consigliate dal gestore lo

salvaguarderanno, più di una reliquia, da qualsiasi malanno, ovviando alla mancanza di istmo del suo piede. Niente gore-tex, meno traspirante e presente solo su scarpe più

pesanti e più costose. Marco però è schifato dall’acqua, guardava alla possibilità di camminare con i piedi inzuppati come se l’acqua fosse merda, ha pensato di portarsi dietro degli scarponi e ad ogni buon contro ci ha fatto comprare le ghette.

   Più minute, oziose, frivole, erano le nostre occupazioni, più ci distraevano. Ritornare di continuo sui più insignificanti dettagli era un balsamo portentoso: la vera causa del viaggio svaporava nell’infittirsi di quisquilie. Durante interminabili serate invernali discutevamo sulla opportunità di portare forbicine (da consegnare a Marco che sarebbe venuto in treno), se il cellulare fosse nello spirito del camino (e quanto fastidio avrebbe comportato portarsi appresso il relativo caricabatterie). Per i piedi Vaselina o Prep? Meglio mettere i cerotti Compeed subito o aspettare che si formassero le vesciche? Calcolare prezzi e intervalli di tempo delle coincidenze dei voli, dei treni e dei pullman ci ha portato via settimane. Leggevamo di tutto, dalle recensioni degli albergue alle ricette di cucina, dagli avvertimenti terroristici sui gorghi che trascinano via i bagnanti incauti sulla spiaggia di Fisterre al tormentone delle cimici. Avevo deciso che se dimensione nuova doveva essere, anche la lettura andava bandita. Il più nobile dei libri ci porta comunque fuori da noi, fuori dal presente; non ci lascia vivere l’istante, lì dove siamo. E poi la carta pesa. Leggeri, sul cammino, leggeri, liberi anche dal pensiero altrui, foss’anche invito al raccoglimento. Vivere ogni minuto, godere l’ozio, come nel passato (ci riusciremo? ma se anche dovesse essere noia, ebbene, ci annoieremo). 

    Era già il viaggio.

    Serro ai miei sprovveduti compagni le cinghie di compressione degli spallacci e allaccio la sternale (non hanno idea dell’importanza di quella fettuccia, pensavano fosse lì per appenderci qualcosa). Ma il passo non è quello del pellegrino, bensì del bighellone. Anzi (nobilitiamo) de flaneur. Non c’è un anima; neppure pellegrini stranamente; quando raggiungiamo l’unico essere vivente, un anziano, per indicazioni sulla Cattedrale, Marco prosegue poi affiancato a lui: attaccare discorso in viaggio, è nella sua natura.

Davanti casa Botines ci sediamo accanto al Gaudì di bronzo, assistito da un piccione anch’esso bronzeo; monumento affatto monumentale, dimesso, borghese, inavvertibile; il piedistallo è una panchina, panchina che è parte del gruppo scultoreo ma anche arredo urbano: il maestro è serio, autorevole, ma pur sempre un cittadino, a gambe accavallate; puoi partecipare alla creazione sbirciando il suo blocco di schizzi, nel cavo dei quali, quando piove o quando, come adesso, gli operatori spazzano con le pompe, si raccoglie dell’acqua e non sai se sia un errore della progettazione o la precisa volontà di dar da bere agli uccelli.

Questo viatico potrebbe essere più che turistico: non di sola estetica ci ha nutriti il Maestro, il più fervente tra i cattolici. Chiedo solennemente, allo spirito dell’uomo che ha dedicato un tempio alla Sagrada Familia, di benedire la mia, di famiglia.

   Sfodero la fotocamera e inquadro il piccione; è identico a quelli che Cotrino dispone intorno ai suoi Cristi, quasi autoritratti. Pittore pagano di Grandi Madri, dopo anni si era scoperto scultore. Come è giusto, perché la nostra non è terra di pittori. È terra di pietre, dure e morbide. Terra di scalpellini. E anche terra di terre: la creta, i vasi messapici, quelli ellenistici, la ceramica moderna. Quasi casualmente, anche per scarsità di committenza

civile, è divenuto scultore sacro. Un po’ a disagio, all’inizio, nonostante la quantità di crocifissi di cartapesta e santi in campana di vetro raccolti negli anni e stipati nello studio. Poi fervente, per acquisita padronanza della storia sacra e per un’identificazione, anche biografica, quasi somatica, con Cristo. Dalle nostre parti le processioni dei Misteri non sono rituali qualsiasi: il sangue sprizza come in un’opera splatter e i detti riferiti alla Passione ricorrono ancora con frequenza: anche i non credenti, al sud, si sentono povericristi.

Gran risalto alle Resurrezioni. Com’è giusto: l’essenza del cristianesimo sta nella vittoria finale, che non è solo rinascita spirituale ma resurrezione del corpo. Verità in ombra, questa: nonostante le antiche iconografie abbondino del Cristo pantokràtor (per non parlare dei leoni ad ogni porta e in ogni ambone) il simbolo più comunemente adottato è quello del martirio, così come l’esortazione più consueta riguarda il rassegnarsi. La resurrezione – la gloria – passa quasi sempre in second’ordine. Eppure senza quella Gesù resterebbe un profeta qualsiasi, come vorrebbero i maomettani. Cotrino lo sa bene e infonde grande vigoria alle sue ascensioni. Ma è pur sempre la vigoria della terra: la sua visione coincide con quella della cristianità contemporanea. Così il Cristo, benché esaltato da ali scenografiche, non ha ancora guadagnato il cielo: per quanto violento sia lo slancio delle braccia verso l’alto, il corpo non vuol seguire, i piedi angariati tardano a svincolarsi dalla presa terrena.

   Mentre ci allontaniamo rimugino sulla Sagrada, che ho visitato. Ma come si può usare il termine visitare? Quel tempio, che volle definire espiatorio, come un pellegrinaggio, è un’opera aperta, da rivedere, da riabbracciare, da abitare. È un’opera misteriosa, singolare e collettiva, completamente determinata dal Genio eppure composita, debordante di apporti, di declinazioni, di invenzioni. Un work in progress non perché moderna ma perché antica,

naturale nella sua crescita come un elemento vegetale, un albero della vita. Perdersi nelle spirali di quelle scale, nelle vertigini delle passerelle, nella corteccia viva delle facciata

della Natività porta più vicini al Mistero di qualsiasi sforzo, di qualsiasi romitaggio, di qualsiasi esercizio di meditazione. È un cammino, come quello che ci accingiamo a

seguire, guidati dalle conchiglie.

   Ma i nostri sguardi ruotano più alla ricerca di serrande aperte che di monumenti. Incrociamo un gruppo di ragazzi alticci, poi, finalmente, un locale aperto: è l’Hotel Paris, con ottime, enormi paste anche se il caffè servito dal giovane biondo non ricorda neanche un buon caffè americano, figurarsi un espresso. La cattedrale è a due passi; nella piazza ancora bronzi. Come ad Atocha, come altrove in Spagna, le sculture moderne sono un inno al viandante, celebrano il fruitore stesso dell’opera. Alla stazione era quasi impossibile distinguere i bagagli in bronzo da quelli appoggiati intorno dai viaggiatori o la statua del

lettore dagli altri passeggeri in attesa. Qui il gruppo scultoreo raffigura due passanti, come i tanti che ammirano la cattedrale, ma se il padre, nonostante la disinvoltura della mano in tasca e del giornale sotto l’ascella, appare colpito dallo spettacolo, il ragazzino è già sbilanciato in avanti, di lato, guarda altrove, distratto e annoiato. Elogio della

naturalezza, omaggio alla normalità. Come avrebbe voluto già Rodin per i suoi borghesi di Calais (nonostante fossero veri eroi): cementati nel mezzo del selciato della piazza.

Non fu accontentato, allora.

   La statua che segue, davanti alla Real Colegiata Basílica de San Isidoro, è molto più tradizionale, con personaggi storici su un alto piedistallo e lapide regolamentare. Non ho tempo di leggere e tradurre la lapide né posseggo guida turistica: resterà insoddisfatta la mia curiosità sulla circostanza che l’ecclesiastico porti occhiali con stanghette incollate

al volto e il civile sia in abito medioevale. Mentre Marco si avvia verso il negozio all’angolo per cercare uno scudetto di stoffa con lo stemma della città entro un attimo nella chiesa e mi si offre un palcoscenico: nella penombra dorata uno spot (di luce naturale, credo) fa splendere il tabernacolo e un altro spot, con riflessi colorati, svela miracolosamente, in fondo alla navata, la testa reclina di un fedele, contrito o disperato (forse ubriaco, insinua Marco, che mi ha raggiunto), che prega (o dorme) con il capo tra le mani poggiate sulla panca davanti. Quale che sia la giusta interpretazione, la Spagna mi si presenta teatrale ed enfatica come l’ho sempre immaginata, forse ricordata (quanto sangue, quanto spirito, quanti termini sono spagnoli, giù da noi).

   Ancora sculture, non sempre decifrabili, lungo il tragitto. Poi lo splendido Parador, l’Hostal de San Marcos. Il pellegrino di bronzo che sosta sui gradini nel monumento di fronte, appoggiato alla colonna che regge la croce, sembra contemplare, testa all’indietro, la facciata plateresca dell’ex convento. Ma ha gli occhi chiusi, come per cogliere solo il benefico influsso spirituale dell’edificio (o forse per non vedere i tassì che scaricano clientela facoltosa davanti a un sito non più religioso). Non sfuggirà, comunque, alla

foto ricordo, la calzatura tecnica multicolore affiancata ai suoi sandali bruniti.

   Ci sono molti pedoni zainomuniti intorno adesso. Non si esce facilmente dalla città: si fa in tempo a notare decine di Se vende. Un’immodesta pellegrina mi induce agevolmente in tentazione: come evitare, se ti precede allo stesso passo, di focalizzare lo sguardo su un sedere tondo come l’O di Giotto esposto in sfacciati leggings? Non foss’altro che per l’eccezionalità lo sguardo scivola dai circostanti pantalonacci da trekking a quella evidente

eccezione. Pensieri impuri alla prima tappa: che ne penserà il Santo?

   Prima della periferia industriale focaccia ripiena e costosa in un piccolo forno con vecchiaccia scorbutica. Poi una parata di capannoni. Molti Se vende, qualche Se alquila.

Il mio pessimo spagnolo mi trae in inganno quando leggo un Se vende nave; immagino che l’edificio alle spalle sia un cantiere navale, ma non si vende nessuna imbarcazione: nave, in spagnolo, sta anche per capannone. Previa consultazione, le nostre donne si inoltrano in un campo con fitti arbusti e quando mi vedono sollevare la macchina fotografica mi minacciano ferocemente. Passiamo davanti a un deposito ordinato di cavi su enormi avvolgitori di legno che spiccano sull’acciaio inossidabile, splendente dei silos del complesso industriale in fondo al piazzale sterminato.

   Dopo dieci chilometri, senza mai essere stati davvero fuori da suoli edificati, individuiamo zaini davanti a un bar, con free Wi-Fi: sostiamo, prendiamo una cioccolata al bancone, scambiamo qualche frase con gli avventori. Due ragazze venete, arrivate che era notte, non hanno trovato posto da nessuna parte: sono state su una panchina, con la pioggerellina e il fresco, fino all’alba. Un signore anziano, partito dalla Francia, seduto davanti alla sua tazza, sta meditando sul posto in cui fermarsi. Potrebbe continuare, ci confida, ha fatto pochi chilometri, ma forse si fermerà un giorno a riposare. Forse. Forse sì, forse no. Decisioni prese di volta in volta. Ecco come dovrebbe essere il cammino. Non si tratta di pigrizia, ma di sana lentezza, la lentezza di cui dovremmo riappropriarci. Noi invece, abbiamo già le tappe prefissate, un numero di chilometri immodificabili da percorrere, sole o pioggia,

febbre o tendinite, serenità o disperazione, concordia o conflitto. La data del rientro è un imperativo: c’è un cartellino da timbrare per tre di noi, non bastassero gli impegni familiari.

   Ancora quinte teatrali in una chiesa: all’esterno il Santuario della Virgen del Camino è una cattedrale modernissima, cinquanta metri di campanile e statuone di Subirachs, quello della Sagrada Familia, ma dentro, poi, le alte pareti scabre dell’edifico modernista convergono nude verso il retablo barocco, massiccio, ricchissimo, circondato da pareti in pietra e illuminato dalla luce radente di una feritoia nascosta in alto. La Vergine, una Pietà in effetti, è l’unico elemento fortemente illuminato, argenteo nel vorticare bruno rossastro dei puttini.

Un prete officia una funzione, tutto indirizza al sacro, ma io mi sento ancora estraneo. Sono sempre andato fiero del mio approccio alle idee, ai fenomeni, agli eventi: aperto ma puntiglioso, critico. Nessun preconcetto, massima disponibilità ma anche tanta analisi, tanta interpretazione. Il dubbio, coltivato con premura, quasi con affetto, è sempre stato un vanto; la massima virtù. Il dubbio è il tratto distintivo del raziocinio. È lo scanner dell’uomo consapevole,ed è la postura che va insegnata ai nostri bambini. Da qualche anno però ho cominciato a soffrirlo come un limite. Limite ineliminabile: è ormai più che un abito, ha avvelenato ogni fibra, non posso semplicemente accantonarlo.

   Scambiamo qualche parola con un domenicano tedesco alto, atletico, che parla italiano: è stato a Roma per un po’. È simpatico ma devo trattenermi dal chiedergli perché va

in giro in pantaloni e maniche di camicia. Ad ogni modo abbiamo ormai il viatico ufficiale: una cerimonia in un Santuario, nel cui nome il Camino è nominato chiaramente. Questo può considerarsi l’inizio spirituale; e anche territoriale, dato che si intravede, finalmente,

un sentiero vero. Calpestiamo così, non solo metaforicamente, la terra di Spagna, ritrovandoci presto dubbiosi su un segnale poco chiaro; le indicazioni della guida si prestano a più interpretazioni; ne discutiamo anche con altri pellegrini, poi la decisione.

Sbagliata, scopriamo dopo un po’. Torniamo indietro e imbocchiamo un tunnel, poi riusciamo a prendere un sentiero percorso da altri pellegrini. Guardando i piloni

dell’alta tensione si capisce che stiamo girando intorno,su è giù, destra e sinistra, ma almeno vediamo macchia, cespugli, qualche fiorellino. Il sole sta salendo e finiamo sul cordolo di una superstrada. Sarà tutta così? Mi sembra di non essere ancora partito.

Proseguiamo per giri viziosi affiancando e incrociando la statale 120. Le conchiglie ormai sono solo dipinte, non incastonate, anzi si è passati alla più moderna freccia gialla.

Attraversiamo poi una Spagna messicana, aspettandoci da un momento all’altro la comparsa di Clint Eastwod sul mulo: pueblo deserti, assolati, municipi sgarupati da città

morta. E le cicogne. Nidi enormi su un campanile a vela, all’ingresso di Valverde de la Virgen, stagliati su un cielo azzurrissimo.

   Per me la cicogna è sempre stata animale mitologico. Non se ne vedevano, da noi, perciò aveva la stessa consistenza dell’araba fenice. La favola non stava soltanto nel suo incarico di trasportatrice di bambini ma nella sua stessa esistenza. Il più esotico dei tratti di questa regione sta proprio nella presenza delle cicogne, nella grandezza, nell’appariscenza dell’animale e dei suoi nidi voluminosi.

   Davanti a una casa l’articolo di giornale aperto sul tavolino ci informa che Agapito vive per il Camino: accanto, un registro per le firme dei pellegrini e un timbro da apporre sulla credenziale. Sulla panca accanto quattro cestini con biscotti da latte, salatini, patatine e caramelle. Preferiamo acquistare un gelato (non se ne vedono molti) e mangiarlo seduti su un cordolo, all’ombra, levando scarpe e calze. Cerco il Prep e me lo spalmo sui piedi.

Arrivano due ragazzoni veneti, uno zoppica. Sono frequentatori abituali della montagna, eppure hanno guai. Anzi li hanno proprio a causa delle loro competenze tecniche: in discesa hanno percorso i sentieri a zig-zag per ingannare la pendenza e secondo il medico interpellato, forse è stato proprio questo a danneggiare il ginocchio del ragazzo che zoppica. All’altro si è formata una vescica proprio nella tappa precedente; eppure hanno iniziato dal

principio, da Saint Jean. Vedo che le calze che si è sfilato non sono in microfibra e glielo rimprovero. Menziono la vaselina ma non è convinto:

   – Sai, ognuno ha le sue ricette e convinzioni, poi però …

   Gli zaini, di notevole capienza, sono gonfi: chiedo quanto pesano e rabbrividisco: vabbé che sono alti uno e novanta e vanno in montagna, ma non sono muli. Le mie critiche all’approccio “montanaro’ al camino vengono confermate. Ripartono. Li ritroviamo più avanti, a una fontana, con pellegrini e residenti in fila. Riempiamo le bottigliette (una

delle prime nette decisioni è stata quella di escludere le stupide borracce, che con questo clima, in zone urbanizzate, non servono a nulla). Poi una strada bianca tra l’erba che si stria di giallo e altri villaggi assolati. Vera ha caldo, non sopporta più le scarpe da running e le calze: le appende allo zaino e inforca le ciabatte da doccia.

   L’ennesimo gruppetto di case messicane, su un muro la grande scritta Santiago 298 km. Colpisce l’alternanza tra facciate linde e altre completamente in rovina. Non perdo d’occhio le flechas amarillas, segnale modernissimo che ha soppiantato la conchiglia come simbolo del Camino. Non perché abbia paura di sbagliare (qui non si perderebbe neanche un bambino) ma perché incomincio a collezionare foto di ogni possibile tipologia: rifinite o spennellate alla meglio sui muri, sui sassi, sulle staccionate, sugli alberi, sui lampioni, sui pali del telefono, sui cartelli, anche improvvisati, in orizzontale o in verticale, gigantesche o

minuscole. Il sentiero si addentra ora in un boschetto ma dopo cinquanta metri ecco nuovamente la dannata 120 da costeggiare. Il sentiero è piatto, comodo, ma la monotonia

del tracciato stanca più delle giravolte e delle pendenze. Continuo ad assestarmi le cinghie, in cerca dell’assetto ottimale.

   Il problema delle pianure è che quando vedi un borgo in lontananza ti sembra di essere già arrivato. Ma non sei in auto e quattro, cinque chilometri in fin di tappa, sembrano interminabili, coi campanili che sembrano allontanarsi mentre avanzi: San Martin del Camino procede in blocco verso Santiago al nostro stesso passo. Le donne sono stravolte. A me non sembra che ci sia tutto questo caldo ma loro non sono abituate a camminare sotto il sole. Le precediamo per affrettare le formalità dell’accoglienza. Ecco i cartelli, ci siamo: poco prima del paese l’albergue (ovvero l’ostello, in questo strano paese dove l’hostal

è invece un albergo) col giardino affacciato sulla strada.

   Sfilo lo zaino e casco su una sedia. Troppo stanco per chinarmi a togliere scarpe e calze e poter mettere i piedi nudi sull’erba, come i pellegrini intorno, attendo che Marco si

informi. Il posto mi garba ma non ho fatto i conti con le fisime di Marco, che pretende camere a due letti o al massimo a quattro. Ci tocca cercare più avanti. Lascio che sia

Marco a spostarsi, tanto è lui il poliglotta. Torna contento, costerà di più ma avremo una camera per ogni coppia. Sopraggiungono le donne; non devono neppure sfilarsi gli

zaini, procedono direttamente. Mi alzo molto lentamente, cercando la posizione giusta:

fiamme alle ginocchia e alle caviglie, il tibiale dolorante. Eppure non sono veramente stanco: lo sforzo fisico è stato nettamente inferiore a quello delle mie uscite in bicicletta

o alle pescate in apnea; le articolazioni però hanno subito molto di più. Del resto le uscite di allenamento che abbiamo fatto non superavano i dieci chilometri. Una volta ne abbiamo fatti ventidue tra gli ulivi, con un gruppo trekking del Salento, ma non portavamo zaini e abbiamo fatto molte soste. Riprendendo lo zaino mi rendo conto davvero del peso, di quanto influisca sulla stanchezza. Ci trasciniamo al Santa Ana, dove buttiamo giù gli zaini definitivamente.

   È così che Vera si rende conto di non avere più le scarpe appese allo zaino. Di sicuro saranno rimaste all’albergue precedente, dove avevamo mollato gli zaini. Lo raggiungo. Guardo nel giardino, chiedo agli stravaccati intorno. Niente. Bella ciliegina mi ha riservato l’apostolo, in fin di tappa, quando avevo già mollato mentalmente. Ci sono almeno cinque chilometri fino al gruppo di case dove ha cambiato calzature. Se le ha perse subito dopo fanno dieci chilometri tra andare e tornare. Ma non mi lamento, sarà la mia penitenza. E almeno non devo portare lo zaino. Per fortuna inciampo nelle Mizuno a soli trenta metri

dall’albergue. Quando rientro Vera è già crollata sul letto. Non ha nessuna intenzione di lavarsi e di rifocillarsi; nemmeno di spogliarsi: nonostante il caldo sofferto si è tirata

una coperta fino alle orecchie. Tocco la fronte. Scotta.

   Calzo le infradito. È la sensazione più piacevole che si possa provare: i piedi liberi, la pelle al vento. Una rinascita. Cerco la doccia, me la godo e poi aspetto che Vera si svegli quel tanto che basta per allungarmi la sua biancheria. Il lavatoio sul retro è ampio, anche troppo, e il rubinetto è quasi attaccato alla parete. Occorre sporgersi, inclinando dolorosamente la schiena che ha sopportato lo zaino per sette ore e allungando le braccia. Io sono alto, ma come avrebbe fatto Marta? Incomincio a borbottare. Quanto cazzo costa una cannetta di zinco? Quanto ci vuole a montarla? Non può essere solo superficialità, c’è del sadismo

in questo dettaglio. I fili per stendere sono sufficienti ma occorre cercare spazi non in ombra perché si sta facendo tardi: è la prima volta che stendiamo e non mi fido delle assicurazioni sulla veloce asciugatura della microfibra.

   Non siamo davvero stanchi, io e Marco, si fa un giro, per curiosare in paese e cercare alternative al menu del Santa Ana, che ci sembra un po’ caro. Ma San Martin è solo una strada, due ali di case intorno alla 120; non c’è nulla, a parte un terzo albergue.

In attesa della levata femminile prendiamo una birra seduti al solicello. Prima di sedermi ci penso due volte: posso camminare a lungo senza nessun risentimento ma alzarsi da una sedia è un’impresa, sembra di sentir cigolare ingranaggi, le ginocchia restano in leggera flessione per un po’ anche quando incominci a camminare. Ma non dovrò muovermi prima di cena, perciò posso sedermi tranquillamente; non prima di essermi piazzata davanti, per tenere le gambe in alto, una delle sedie di plastica blu marchiate Pepsi. È la felicità. Non si può desiderare null’altro. Senti defluire il sangue, le tossine, il dolore. Il Nirvana. In un

campo, di fronte a noi, oltre la rete metallica, un uomo falcia l’erba. Non riesco a crederci: vivo da sempre in un paesino agricolo del sud e non vedo quel gesto da cinquant’anni.

È un gesto mitico, anzi mistico.

   Mi ripropongo di fotografare un carrellino a tre ruote in lega, forse un passeggino adattato, con uno dei ruotini a terra. Il proprietario sta dicendo a qualcuno che non riesce

a trovare chi la ripari e che ha già adoperato il tubolare di scorta.

   I panni! Tocca alzarsi. Ahiahiai. Mani sui braccioli e lento sollevamento, con attento ascolto delle giunture. Dieci passi e il dolore si attenua. La decantata velocità di

asciugatura della microfibra va ridimensionata: la roba è ancora umida. Ma l’aria è secca, la temperatura mite, finiranno di asciugare in camera. Riposizionamento sulla poltroncina

da bar. La fame è una percezione tenue, ma alle sette, quando ci raggiungono le donne, divoriamo tutto il menu. Attardandoci su salumi e formaggi, superlativi, fraternizziamo con la coppia di albergatori; Marco cerca di capire che tipo di economia ha questa gente, ammesso che la gente esista. In giro non si vede nessuno. Lungo discorso del marito, un omone grande e grosso, ma, a parte il fatto che molti lavorano fuori, nei campi o nelle cittadine dei dintorni, non ci capiamo granché. E non è che mi interessi molto. Non so cosa mi interessa esattamente. Forse dovrei concentrarmi sulla meta, sul senso della scarpinata,

sulle ripercussioni interiori dell’avanzamento fisico. Tutto invece mi scivola addosso. Forse la stanchezza attutisce ogni impressione che non riguardi le funzioni elementari  dell’organismo. Magari il protrarsi dell’ottundimento da stanchezza finirà per portarmi a una condizione favorevole all’introspezione. Per ora mi interessa soltanto che Vera

la smetta di fare la sostenuta. Non mi ha praticamente rivolto la parola in tutta la giornata. E non è un problema di stanchezza.

   Marco si informa sul servizio zaini. Molti mandano avanti gli zaini col furgone. Costa poco ma è un condizionamento notevole: devi decidere prima dove ti fermerai, non solo la località, ma anche l’albergue. Poi ti succede di  passare davanti a un delizioso rifugio immerso nel bosco rendendoti conto di essere costretto a procedere per uno

probabilmente più squallido. E neanche a parlarne di accorciare la tappa, per qualsiasi motivo. In teoria potresti allungare, se hai trovato la tappa leggera, ma quegli zaini

sono una sorta di prenotazione e l’hospitalero potrebbe risentirsi. Ma è soprattutto per altri motivi che oppongo resistenza: questo pellegrinaggio si sta trasformando in una scampagnata turistica, ci si allontana sempre più dallo spirito del camino; al santuario si dovrebbe portare il proprio fardello; la scuola di vita sta, prima, nel selezionare ciò che davvero è indispensabile e poi, man mano, nel rinunciare a cose che avevamo erroneamente ritenuto indispensabili.

   – Ma noi non lo facciamo con spirito di sacrificio – mi oppone Marco.

   Lo capisco, ma anche chi non lo fa per voto o per devotionis affectu dovrebbe sforzarsi di ripercorrerlo nelle condizioni originarie, con spirito medioevale, per quanto possibile: è una questione filologica, se no tanto vale farlo in tassì. Ma non posso decidere per loro e pretendere che le nostre donne, sedentarie estreme, portino pure gli zaini. Mi offro allora di spostare nel mio zaino parte della sua roba ma Vera non vuol sentirne parlare.

   Si crolla che è ancora piena luce.

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