Piazze leccesi

2008-10-19 08:30:16

 

Le piazze italiane su Tempi


Su iniziativa di Camillo Langone il settimanale Tempi ha affidato agli scrittori italiani una ricognizione delle Piazze del paese. Qui c'è la mia passeggiata leccese:

 

 

Ma Piazza Duomo è una piazza? 

 

Che sia una meraviglia da celebrare fra le meraviglie italiane è certificato da Cesare Brandi, il quale, essendo senese, di piazze se ne intendeva. Che sia una piazza, però, è da dimostrare. Non solo perché è un enorme cortile (cortile del Duomo era chiamato infatti fino a non molto tempo fa) cui si accede da un portone. Non è questo il punto: si sa che tutta Lecce è architettura d’interni, che in quelle strade strette, sotto le strabocchevoli mensole barocche dei balconi, il passante si sente sempre ospite di un interno. Il punto è che in una piazza d’Italia l’edificio sacro è sempre accostato a quello civile, e qui di civile ci sono solo un paio di graziose terrazze e l’affaccio posteriore di alcuni locali (bar, cartoleria di lusso e boutique, infatti, hanno tutti l’entrata sulla via antistante). 


Gli edifici pubblici sono invece concentrati un po’ più in là, nella piazza vera, Sant’Oronzo, dove solo lo stretto prospetto di Santa Maria delle Grazie tiene testa al paganesimo dell’anfiteatro romano, all’utilitarismo del palazzone fascista dell’INA e delle sedi bancarie – ma in una di queste è incuneata una libreria Mondatori – e alla predominanza municipale del Sedile gotico che umilia il misero cubicolo della addossata chiesetta di San Marco, ora sede della locale sezione Associazione Nazionale Combattenti e Reduci – Cavalieri Ordine di Vittorio Veneto - col che si soddisfa uno dei requisiti fondamentali della piazza italica: la presenza degli anziani (che saranno, immagino, i figli dei Cavalieri). Lì è rispettato anche l’altro requisito fondamentale: le sedie dei bar all’esterno, inesistenti al Duomo perché non è stato concesso al bar di occupare il suolo antistante (solo a volte la titolare mette fuori timidamente una poltroncina di vimini).
Si potrebbero utilizzare i gradini del Duomo o del Seminario. Sedervisi però non sarebbe rispettoso (il luogo incute ancora reverenza) e si resterebbe in ogni caso troppo decentrati per svolgere il compito che Brandi ci assegna in Pellegrino di Puglia: “cogliere sul fatto la ragione del prodigioso, serrato equilibrio che la piazza sviluppa”, percepire “i compensi misteriosi e precisissimi che passano fra l’altezza del campanile e la larghezza del sagrato, il cannocchiale dell’ingresso e quella specie di scenario solido che è la loggetta di fondo, determinando un sicuro addentellato di volumi, una frattura salutifera degli usati allineamenti prospettici”.

Ma una piazza non serve solo al godimento estetico, al raccoglimento spirituale: deve essere luogo d’incontro. Così la piazza si è trasferita fuori dal portone, sul fiume a correnti incrociate della stretta via Vittorio Emanuele II, che conduce a Piazza S. Oronzo. E’questo il luogo di passeggio, di shopping, di sosta (al primo slargo, dopo l’angolo della libreria Liberrima sono in attesa i tavolini di un bar). Un po’ troppo turistico (il nuovo spazio della libreria Liberrima, Liberrima nel cortile oltre ai libri sul territorio allinea vini e specialità gastronomiche) ma stranamente privo del nuovo elemento caratterizzante delle piazze italiche, le bancarelle degli extracomunitari: il Vu cumprà group ha un negozio regolare a pochi passi, su via Palmieri, e i pochi banchetti di bigiotteria sono di autoctoni tra l’hippy e il punkabbestia. 
C’è un dettaglio in questa via che spiega il Salento: in cima a un palazzo malridotto sorge una loggia immotivata, una serie di archi che non regge nulla e non ha nulla dietro. Sarà incompiutezza dovuta a un improvviso declino ma sembra fatta apposta perché dal basso, in quella prospettiva scorciata, tu veda il cielo in cornice. Un infilata di spicchi di cielo. Il cielo qui non è alto, è domestico, arriva giù, poggia sul sagrato del duomo, si diffonde nella mente, la svuota. E’ il depensamento. 
Questa del Duomo, insomma, non è piazza, è piazzola di sosta. Ci si immette per concedersi una pausa. I Propilei del Manieri sono lo stargate per un immersione nei secoli scorsi, da sperimentare in solitudine. E qui la solitudine è garantita: i turisti e le famigliole non disturbano, non ingombrano, sembrano statuine di cartapesta dentro un presepe di pietra leccese.

Agnese Manni, che ha preso in mano la casa editrice di famiglia, non ci metterebbe mai piede, al Duomo. E a Sant’Oronzo ci capita solo perché c’è il suo grafico. Spalletta (è il soprannome affibbiatole da Dario Voltolini quando l’ha vista adoperare la tecnica dello spallettamento - allargare le spalle e non schivare mai nessuno - per punire i deficienti che stanno accalcati in un posto come se avessero quindici anni e avessero ancora bisogno del branco) sostiene di essere la meno indicata per parlare di questa città: “Sì, la luce, gli spazi bianchi, la luce che sbatte sulla pietra, ma ci sto come se fossi altrove, sollevata da terra, sprofondata sotto”. Ma non viviamo tutti così, noi salentini? E non è la ricetta cardinale? Vivere in questo mondo come non vi si appartenesse?
Agnese - così minuta che non le daresti delle spalle tanto devastanti - odia i luoghi affollati, anche quello canonico della movida leccese, che non finisce prima della quattro di mattina: la strada dei pub. Dietro Piazza Duomo, da piazzetta Santa Chiara fino a porta San Biagio è un susseguirsi di locali, lounge bar (che fanno tanto metropoli e che, nelle metropoli, sono scomparsi), ristoranti, take away, pub irlandesi che di oltremanica hanno soltanto qualche foto ingiallita di Joyce e American Bar che servono friselle al pomodoro.

Neanche Francesco Lanzo, il giovanissimo narratore naturale de i Lanzillotti, dalle lunghissime frasi dispnoiche debitrici dell’inarrestabile cicaleccio salentino, ama lo struscio delle strade del centro. Né lo esaltano locali come la Negra Tomasa, frequentata da universitari e da comitive di maschi, cronicamente e orgogliosamente disoccupati, ma con la polo e il mojito in mano, che cercano di attaccare bottone con le decine di ragazze che frusciano, lentamente e rumorosamente, su quella strada. Non è per lui la Tipografia, che accoglie nel suo ambiente minimal con grande bancone e acclusi baristi in divisa la lecce bene che vanta discendenze cardinalizie, zii avvocati, ville al mare, la camicia bianca e se c’è un po’ di freddo il maglione sulle spalle, i trenta quarantenni che sotto i grandi ombrelloni bianchi della vecchia corte di fronte scelgono la discoteca della costa dove andare a ballare e ne approfittano per lasciare la propria mail al figlio dell’assessore che gli farà avere l’ennesimo pass per parcheggiare il bolide sempre più vicino al locale: scrivimi quando vuoi, la leggo sul Blackberry. Né il Cagliostro, che attira la parte più intellettual chic, fratelli e sorelle minori, della fauna di cui sopra: giovani presidenti di Leo e Lions, neolaureati di giurisprudenza ed economia, dottorandi in storia dell’arte e fidanzate con aspirazioni artistiche che finiranno nella villa del marito in viaggio per lavoro. 
No, se proprio ha voglia di una birra, Lanzo si infila nel Molly Malone. 

In quanto ai ragazzi dei paesi vicini, d’estate a Lecce non si fermano: pit-stop in Via Palmieri, all’Orient Express Pub Cafè, dove la birra costa poco, e intorno a mezzanotte via per spiagge. A quell’ora piazza Duomo, con la scenografica illuminazione radente che spazza il chiaro di luna, pare un’astronave aliena.


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