Le chiamano nozze

2013-01-02 18:40:46

 

L'ossimoro perverso

 

Si preferisce questo termine, che attiene maggiormente al rito, dato che l’inequivocabile etimologia di ‘matrimonio’ spazzerebbe via ogni sciocca pretesa di analoga istituzione omosessuale. Se lo dici, ti guardano schifati. Ma allora sei omofobo?! Veramente io… e sei già sulla difensiva, stigmatizzato dall’equivalente odierno d'fascista' costretto a giustificarti, a dire che no, che tu non riesci neanche a immaginarlo un mondo non vivificato dalla trasgressione: 


la letteratura più che dimezzata (Proust da solo vale mezza cultura occidentale) per non parlar dell’arte (soprattutto quella sacra); che ti sei disperato per le tue troppo tradizionali inclinazioni quando ti è sembrato che solo gli scrittori omo avessero le palle (congiuntura curiosa: Vita standard di un venditore provvisorio di collant, forse il miglior romanzo italiano degli ultimi quarant’anni, letto subito dopo la Recherche); che mentre il paladino delle unioni omosessuali Nicola Vendola taceva vigliaccamente sul destino riservato ai suoi simili dal ‘Grande Vecchio’ Fidel, tu recensivi il libro di Reinaldo Arenas, omosessuale sopravvissuto ai lager cubani, con risonanza irrisoria rispetto a quella che avrebbe ottenuto una sola parola del leader del wedding party. 


Ma nulla vale, neanche l’estrema difesa (non ti perderesti un episodio di Modern Family): foglie di fico di un oscurantista mascherato, inconsapevole vittima di indebite ingerenze vaticane. Inutile argomentare, ricordare che la maggioranza degli omosessuali non ha nessuna intenzione di prestarsi a una pagliacciata del genere, perché “offenderebbe la memoria della loro madre”. Nulla da fare: i diritti delle minoranze innanzi tutto, dunque sugli scudi ogni pretesa della minoranza di una minoranza. Non sono neppure sfiorati dall’idea di ignorare i diritti dei poveri bambini che costoro, manco a dirlo, avrebbero il Diritto di adottare: “Sarebbero genitori migliori, sono dolci e sensibili” recitano, imbevuti dall’oleografia ‘scientifica’ – ed eterofoba - di cento fiction. E non dubitano minimamente che la dolcezza sia tutto ciò che abbisogna a un bambino per affrontare ogni fase del processo della crescita. Incalliti materialisti e superficiali edonisti si alleano per insegnarti che dove c’è l’amore c’è tutto, mescolando allegramente le più svariate tipologie dell’amore. E guai se gli ricordi che la pedofilia è un amore, e pure la zoofilia, ragion per cui uno potrebbe rivendicare il ‘diritto’ di sposare la propria capra. 

Vagli a spiegare che è fondamentale vivere la propria condizione in modo problematico. Che tutti sono chiamati a vivere la condizione umana in modo problematico, figuriamoci gli omosessuali, che sono sempre stati linfa della società proprio perché, vivendo conflittualmente la diversità, ci hanno regalato visuali inconsuete, rivelatrici. Che senso ha incitarli ad appiattirsi grottescamente in una normalità fasulla? Riescono a immaginarsi Visconti col bouquet in mano e il fidanzato in pizzi bianchi? Pasolini che si presenta all’Assessore col pischello, infliggendo dolore e vergogna alla madre adorata? E Testori che si accasa pigramente e al diavolo la tensione tragica del suo cattolicesimo? 

Mica puoi invitare questa gente a leggere le decine di pagine che Proust ha dedicato alla categoria, pagine tristissime, desolanti e soprattutto insospettabili: mai uno scrittore maschio (s’incazzi pure il mio Busi, preferisco questo termine a quello di etero, che mi suona strano) ha avuto tanta spietatezza. Questi qua leggono solo Repubblica Donna e tutti gli altri giornali della Donna Repubblicana, pieni di fesserie tipo: bisogna esplicarsi (come dicevano i genitori di una povera ragazza a un attonito Tognazzi, giudice istruttore in un famoso film), seguire i propri impulsi, abbandonare i sensi di colpa e pure la colpa, togliersi ogni capriccio e al diavolo tutti gli altri. “Purché funzioni” è lo slogan conclusivo di uno degli ultimi film da Woody Allen, che peggio non poteva invecchiare. Quello che Allen ci sta dicendo è “Purché funzioni per te”. Ma i ménage devono funzionare anche per gli altri, devono essere dotati di senso, collocati nel mondo, e nonostante i vagheggiamenti, le illusioni e le facili consolazioni di una casta privilegiata, la famiglia (che è delittuoso diminuire con l’insidioso aggettivo tradizionale) resterà in eterno il fondamento di ogni società strutturata. 

Insomma, l’unica questione che angoscia questa allegra compagnia è che i ricchioni ancora non si possono sposare. Eccolo lì, finalmente smascherata l’omofobia sottesa: hai usato il termine spregiativo, è venuto finalmente a galla il tuo odio per il diverso. Per la verità, io odio l’inappropriatezza lessicale. Non intendo usare la parola gay perché non mi garbano i vocaboli stranieri, il neutro ‘invertito’ è troppo desueto e in quanto a ‘omosessuale’, termine da enciclopedia medica ormai ridicolizzato dalla ripetizione urlata del Fabio dei Soliti idioti, dopo quattro volte che lo uso mi stufo e cerco un termine comune, italico e chiaro. Antico, forse anche affettuoso (da noi ué ricchiò è un saluto comune per i più fraterni amici). Ma con quel vocabolo rimuovi metà del problema: e le lesbiche? Al mero livello filologico, in effetti, la loro unione potrebbe rientrare nella categoria matrimoniale. Di bastardi, del resto, son piene le storie familiari, anche se qui nascerebbero più spesso da provetta, orrida pratica che attenuerebbe tuttavia l’antecedente peccato di onanismo. In compenso resterà ben arduo il processo di individuazione del malcapitato rampollo.

Mentre tenti di evitare il linciaggio, li guardi e realizzi: nessuno di loro è sposato. Se gli chiedi cosa li trattenga da questo passo così ambito, proprio loro che avvertono tanto fortemente la sofferenza dei discriminati non vincolabili, otterrai risposte diverse: qualcuno non ha soldi per uno sposalizio decente, qualcun altro non lo trova importante: cosa cambia nella nostra vita? Noi ci sentiamo uniti, conviviamo, ci accoppiamo privatamente, non abbiamo bisogno del riconoscimento altrui: siamo compagni (di merenda, di strada, di partito? Come si può definire così un contenuto sacro nei millenni?). Poi ci sono quelli apertamente ostili, di reminiscenze engelsiane: cos’è questo residuato borghese, questa sceneggiata da preti, questa istituzione marcia, ipocrita, non in linea con la modernità? 

Non si capisce perché, insomma, vogliano condannare a questo giogo che tanto li schifa i loro amici ‘diversi’. Di colpo il matrimonio non è più borghese, ipocrita, superfluo? Già, non più: tra appartenenti allo stesso sesso diventa grottesco, offensivo, quindi liberatorio (qui si palesa il fine di questa campagna: uno sberleffo alla famiglia). Si sposino dunque soltanto loro. E’ giusto, in fondo, è un altro modo di consegnarli alla diversità, di stigmatizzarli definitivamente: diversi e pure fuori moda. 

Anche su Oltre la notizia 

Ancor più interessante la discussione su Le parole e le cose, con gli interventi di Roberto Buffagni


 

 

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Commenti: 1
  • #1

    Federico (venerdì, 08 febbraio 2013 20:29)

    Caro Elio, se ti apostrofano con un "ma allora sei omofobo!", rispondi semplicemente: "di più: sono fallocrate".
    Un abbraccio,
    Federico