L'arma del delitto

2008-09-01 09:30:20

 

Eufemismo ed eugenetica

 

L'intervento alla conferenza di presentazione della rivista Quaderni di didattica della scrittura (Carocci)

 

La prima parte sarebbe rivolta agli addetti ai lavori ma la seconda, riportata sul dorso del Corriere, riguarda tutti, molto da vicino.

 

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Sia attraverso i Quaderni di Didattica della Scrittura sia organizzando corsi e seminari tenuti da figure estranee al mondo accademico, la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bari si sta dedicando intensamente ai problemi della scrittura che potremmo definire ‘creativa’, anche se questo aggettivo non viene utilizzato. L’iniziativa privata ha preceduto, in Italia, l’università. Già negli anni ’80 si tenevano corsi di scrittura creativa Tra i primi ricordo quelli di Sandro Veronesi, il pluripremiato autore di Caos calmo, di Laura Lepri, editor e agente letterario. Oggi, a parte quelli notissimi della baricchiana Scuola Holden di Torino, fioriscono dappertutto ed è gustoso leggere il programma di alcuni, che comprendono soggiorni in località amene che solo a volte sono veri e propri parchi letterari.

 

La domanda è: servono? Saltano subito in mente le ferocissime polemiche sui blog, dove molti accusano gli insegnanti di frode: la creatività non si insegna, dicono, nessuno dei giganti della letteratura è uscito da un corso di scrittura creativa. Beh, non è del tutto vero: si cita sempre, a proposito di grandi scrittori contemporanei, il caso di Raymond Carver, che aveva seguito i corsi universitari di John Cheever. In realtà quasi tutti i grandi autori classici hanno seguito corsi di scrittura creativa, Dante compreso. Non si chiamavano così, naturalmente. Un decano tra gli insegnanti di scrittura creativa è lo scrittore Giulio Mozzi, che prima di diventare direttore editoriale della Sironi ha vissuto di questi corsi, ne ha fatto la fonte primaria di sostentamento. Un vero professionista, divoratore di tomi di mille pagine, sempre al corrente di ogni novità, in grado di citare i più recenti testi americani. Ma qualche tempo fa ha confessato: signori miei, siamo costretti a definire i nostri corsi creative writing, se no non ci verrebbe nessuno, ma io insegno retorica. Che non si sparga la voce ma il mio riferimento principale e costante è Quintiliano.

 

La retorica è un pilastro della tradizione culturale europea. Ed è più attuale che mai. Se andate a guardare i programmi di un qualunque corso universitario di Scienza delle comunicazioni (uno dei corsi di laurea più gettonati, ultimamente) ci troverete Teoria e tecnica del linguaggio giornalistico, Teoria e tecnica dei mezzi di comunicazione di massa, Teoria e tecnica dei linguaggi multimediali, e così via. Tutti i testi relativi sono pieni zeppi di retorica. Insomma, i corsi di scrittura creativa sono necessari perché non sono altro che un tardivo rimedio al gravissimo errore del ’29, quando fu abolito l’insegnamento della retorica. In realtà la retorica era già stata colpita a morte dal romanticismo, forse già dall’illuminismo: la verità risplende da sola, senza bisogno di artifizi ed orpelli. La retorica sarebbe questo: orpello, artifizio, disssimulazione. Ma esiste la dissimulazione onesta, quella del bellissimo trattato di Torquato Accetto (lo trovate gratis in rete). Ed esiste la psicagogia, la retorica “buona” di Platone, che pure odiava la retorica perché arma dei sofisti. In ogni caso, non esiste una modalità d’espressione “naturale”. Si fa spesso riferimento di un presunto esperimento del nostro Federico II: Federico avrebbe tenuto dei bambini prigionieri in una torre senza che nessuno rivolgesse loro la parola. L’imperatore intendeva così scoprire quale fosse la lingua originaria. I bambini morirono, dice la leggenda. Perché il linguaggio è un artificio.

 

Da noi, poi, nel ’68, furono messe a morte, a furor di popolo, anche la sintassi e la grammatica. Ricordo che ancora negli anni 80 il professore di mia figlia alle medie non correggeva i compiti. Basta con la matita rossa e blu, questo residuo oscurantista! Lui leggeva Repubblica e gli scolari scrivevano quello che gli pareva. Perché dovevano “esprimersi” senza costrizioni. Ovvero balbettare. Eppure il Trattato dell'argomentazione - La nuova retorica di Perelman era già stato tradotto, nel ’76, da Einaudi. Insomma, esistono le tecniche e non si può far nulla senza averle imparate - e poi dimenticate, s’intende. Attenzione, dimenticare è la parte fondamentale ed è la più difficile, molto difficile. Il più utile dei consigli che si possa dare a un aspirante scrittore è quello del pastiche: copiare, dapprima letteralmente copiare, pari pari, trascrivere interi brani, intere opere, dei propri autori preferiti, poi magari imitarli, o addirittura parodiarli, come fece Hemingway con Sherwood Anderson in Torrenti di primavera. Solo così ci si affranca. La seconda domanda è: per insegnare le tecniche di scrittura è necessario un creativo? Uno scrittore? Forse no. Chiunque è in grado di tenere un corso decente su trama, personaggi, ambientazione, colpo di scena, dialogo: basta leggere a voce alta, in classe, uno tra le decine di manuali di scrittura creativa pubblicati in Italia. Insomma, inutile chiedere a uno scrittore di andare in una scuola a parlare di elocutio e dispositio. Non lo farà meglio di quanto lo sappiano fare dei professori. Allo scrittore, se proprio si vuole invitarlo, bisognerebbe chiedere di parlare dell’invenzione, che era la prima delle cinque parti fondamentali della retorica classica ma è sempre stata molto trascurata.

 

Trovare cosa dire, di questo si tratta. Non si tratterebbe propriamente di invenzione quanto di una scoperta o riscoperta: tutto esiste già, bisogna solo ritrovarlo. E’ una funzione più estrattiva che creativa. La miniera è lì, si chiama Topica. Hegel dice: invenzione è trovare e/o produrre un oggetto concreto, e perciò transeunte, nel quale tuttavia si rende percepibile lo Spirito. “Che alluda al mondo e insieme all’eternità” sono le parole di Flannery O’ Connor, la grande scrittrice americana autrice di una raccolta di saggi sulla scrittura: Nel territorio del diavolo. Potete dirla più alla moda, volendo: trovare e/o produrre un frattale, ossia un oggetto ogni singola parte del quale ha la stessa forma dell’oggetto intero. Ecco, lo scrittore dovrebbe essere esperto nel cercare questo. Ma ammesso che lo sia, può davvero insegnarlo? Perché no? risponderebbero i sostenitori della traspirazione. Qui dobbiamo venir fuori da un grosso equivoco, che deriva dalla visione marxista del lavoro intellettuale. “Lavoro”, appunto, necessariamente equiparabile a qualsiasi altro lavoro. I marxisti hanno adottato con gioia quel famosissimo aforisma: “l’arte è al 5% ispirazione e al 95% traspirazione”. Per anni ci hanno spiegato che l’arte è applicazione, fatica, risultato del ponzare. Io mi sono divertito a raccogliere in un articolo illustri testimonianze sulla predominanza dell’ispirazione. L’articolo è già vecchio ma ogni giorno trovo nuove conferme dell’irrompere dell’imponderabile nella creazione.

 

Ne cito solo qualcuna: Il poeta dialettale Franco Loi: “Nella esperienza del mio poetare il mio io non ha avuto che una minima rilevanza… nella stanza c’era un sé che dettava, qualcuno mi dettava dentro: una presenza che avvertivo sul capo come un calore e che mi osservava, indifferente a quanto mi accadeva… mi sono sempre considerato amanuense di Qualcuno… sono solamente uno che scrive poesie dettate”. Borges: “Io non scrivo quello che voglio. Sono cose che mi vengono suggerite da qualcuno o da qualcosa. Potete chiamarlo Musa, o Spirito Santo o subconscio. Io non scelgo i miei temi o le mie trame. Mi vengono suggeriti. Devo annullarmi e riceverli passivamente”. Fernando Pessoa: “Un giorno - fu l’8 marzo del 1914 – mi avvicinai a un cassettone alto, presi un foglio e cominciai a scrivere, in piedi. E scrissi trenta o più poesie di getto, in una specie di estasi la cui natura non riuscirei a definire. Fu il giorno trionfale della mia vita, e non potrò mai averne un altro uguale”. Umberto Saba, a proposito della "composizione" della poesia A mia moglie: “A tutto pensavo fuorché a scrivere una poesia. Ma una cagna, la "lunga cagna" della terza strofa, mi si fece vicino e mi pose il muso sulle ginocchia… Quando, poche ore dopo, mia moglie tornò a casa, la poesia era fatta: completa, prima ancora di essere scritta, nella mia memoria. Devo averla composta in uno stato di quasi incoscienza, perché io, che quasi tutto ricordo delle mie poesie, poco ricordo della sua gestazione. Ricordo solo che, di quando in quando, avevo come dei brividi". Il più insospettabile è Paul Valéry, che rideva di questo mitologismo psicanalitico: “La vera attitudine di un vero poeta – opinava - è quanto vi è di più distinto dallo stato del sogno. In essa, scorgo soltanto ricerche volontarie, sottomissione dei pensieri, acquiescenza dell’anima a costrizioni squisite, il continuo trionfo del sacrificio”. Sentite cosa gli è toccato confessare in seguito: ”Mentre procedevo lungo la strada dove abito, fui improvvisamente ‘afferrato’ da un ritmo che si impose a me stesso in maniera imperiosa e che avvertii immediatamente come un’attività estranea. Era come se qualcuno si stesse servendo della mia ‘macchina da vivere’… non so che canto stavo mormorando, o meglio, che si stava mormorando da solo ‘attraverso me’… In capo a una ventina di minuti, l’incantesimo svanì bruscamente, abbandonandomi sulle rive della Senna, stupito come l’anatra della Favola quando vide un cigno uscire dall’uovo che essa aveva covato”.

 

Concludo questo discorso con una frase di cui si era appropriato Carmelo Bene: il talento fa quel che vuole, il genio fa quel che può. Il genio è schiavo di un’ossessione, preda di un demone, in balia delle muse. Non dirige a piacimento la sua attenzione. E’ obbligato a fare quel che fa. Fa quel che può, quello che gli è permesso di fare. Prendete uno dei più brillanti scrittori dei nostri tempi, Tiziano Scarpa. Ci sono forse scrittori più dotati e critici più acuti ma nessuno riesce così formidabile come critico e come scrittore insieme. Però nessuno dei suoi libri sembra necessario, fondamentale, imprescindibile. Fa quel che vuole, ha scritto almeno una dozzina di libri, per non parlare di tante sue altre attività creative, ma non ci ha ancora dato un’Opera, un’Opera con la O maiuscola. Lui crede di essere un Autore e non si inginocchia davanti alla Musa. Vedete, noi non parliamo, siamo parlati. Carmelo Bene lo ripeteva sempre. Non scriviamo, veniamo scritti. Siamo canali. Nulla è veramente nostro. Siamo attraversati. C’è, naturalmente, il lato negativo della faccenda: siamo eterodiretti, siamo in balia del chiacchiericcio televisivo. Siamo ripetitori mediatici. Riemettiamo insulsaggini, diffondiamo rumori di fondo, disturbi, interferenze. Ma molto spesso chi è ben sintonizzato, chi è allineato, chi è illuminato, diventa un tramite. Bene farebbero gli scrittori a rivestire panni reali e curiali – come Machiavelli – al momento di sedersi alla tastiera, e invocare le Muse, come si faceva una volta.

 

Ora, come si fa a insegnare cose di questo genere? Qualcosa di cui non si è realmente consapevoli? Si possono, sì, suggerire delle procedure. Può essere utile, ad esempio, “imparare ad alternare concentrazione e distrazione, a trasformare quindi la distrazione in un valido aiuto alla concentrazione. È importante imparare a confidare nel caso”. È opportuno abituarsi ad avere dei progetti e a usarli come strumenti per orientarsi; ma soltanto per abituarsi a cambiare di colpo orientamento. L’umiltà è conditio prima. – scriveva Carmelo Bene nel monologo dei cretini in Nostra Signora dei Turchi. E Carmelo Bene, lo sappiamo, aspirava all’idiozia. Anche Flannery O’Connor scriveva che “c’è un granello di stupidità di cui lo scrittore non può fare a meno: lo starsene a fissare senza andare subito al dunque”. Fissare, come San Giuseppe da Copertino, frate “illetterato et idiota” che volava a bocca aperta. Incantarsi di fronte alle cose. Andare a lezione di stupidità, insomma.

 

 

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Dicevo degli eufemismi che nascondono la sopravvivenza della retorica. E a questo proposito non posso esimermi dal lanciare un appello: penso che tutti quelli che si occupano di comunicazione dovrebbero lanciare una richiesta di moratoria. La moratoria dell’eufemismo, la peculiarità più diabolica del nostro tempo. Occorre restituire alle cose il loro nome. Questo è l’atto più rivoluzionario che esista. Mi direte: che bisogno c’è di una moratoria “della Crusca”? Le denominazioni politically correct sono già sbeffeggiate ogni giorno. Certo, ma per fare dell’ironia, in elzeviri compiaciuti, come se fosse un problema di stile, di educazione. Così si perde di vista la devastazione operata dall’eufemismo. L’eufemismo è estremamente pericoloso: già in passato ha permesso ai banalissimi esecutori del male di autoassolversi (senza eufemismi – per intenderci - il “normale” Eichmann non avrebbe potuto fare quello che ha fatto). Se un ebreo lo chiami cinquanta volte cane, cessa di essere un uomo. E lo sterminio diviene naturalmente una semplice “soluzione”. Dai il nome opportuno a qualcosa e ogni azione diviene lecita a piacimento. Basta definire diritto una qualsiasi pretesa della più ristretta minoranza e di colpo quel comportamento è inattaccabile. Anche se nessuna assemblea ha mai sancito quel diritto, anche se la balla dell’inalienabile diritto l’ha tirata fuori dal cilindro un singolo attivista o il giornalista al seguito. Pensate alla custodia cautelare, questo termine così amorevole: cura, custodia. Com’è carezzevole, sembra alludere a un sollecito ricovero, a un deposito in bambagia. Si dica carcere preventivo invece, e vedrete quanto una società civile possa tollerarlo. La nostra società non è in grado di tollerare più nulla che non sia confezionato in questo gergo da confezione natalizia. E ognuno di questi termini ha vita brevissima. La sostanza viene sempre fuori dal suo bel pacchetto, così in poco tempo handicappato – termine all’inizio così neutro nella lingua straniera – è divenuto un insulto e via di corsa a cercare nuova carta da pacchi, sempre più ridicola, sempre più lunga: dove bastava una parola ce ne vogliono due, tre, un’intera frase, una coperta infinita come i rotoloni Regina ma sempre troppo corta. Nulla ci è più comprensibile: detti, proverbi, la saggezza popolare, il mondo classico, la Bibbia. Chi va col diversamente deambulante impara a diversamente deambulare. Vi sembra proponibile? Così negli ospedali si è cancellata la parola Primario, che pure aveva resistito fino a pochi anni fa, perché gli altri medici trovavano umiliante Aiutare o Assistere. Ora il Primario di chiama Dirigente di II livello. Secondo livello, come seconda scelta: non solo uno tra tanti ma addirittura un sottoposto. Naturalmente il paziente tenderà a dare più credito a un Assistente, che sul badge porta scritto Dirigente di Primo Livello. Primo, ovviamente il più importante. Il potere del nominare è immenso. Si tende a pensare che le parole cambino dopo che la realtà è cambiata. Non è mai così: non può cambiare nulla nella società, non c’è rivoluzione possibile, se prima una élite non impone un nuovo lessico. Quando si intende imporre una nuova legislazione, si cambiano i termini della questione: il resto segue. Se si decide di rinominare mamma e papà Progenitore A e Progenitore B, c’è un motivo preciso: si ha chiaro in mente un percorso distruttivo per la famiglia tradizionale che non può prescindere da uno stravolgimento lessicale. Può essere un procedimento legittimo ma tutti devono essere consapevoli, se avallano queste derive, della propria responsabilità. C’è poco da ironizzare su questa perniciosa pratica: l’eufemismo è un delitto. L’eufemismo uccide la verità (termine ingombrante, sì, non ce la faccio più a nascondermi dietro il termine “realtà”, che voi potete tranquillamente utilizzare senza incorrere nel peccato di eufemismo) poi ci permette di sopprimere la vita. Ascoltate una donna incinta che parla di una gravidanza che intende portare a termine. Si rivolge al contenuto del suo grembo come a un bambino, da subito. Già nei primi giorni ne parla designandolo con un nome proprio, quello che gli darà al battesimo. Nell’altro caso, invece, si parla di embrione, feto, o, meglio ancora, non lo si nomina del tutto. Si tenta di considerarlo un’escrescenza, una cisti. Così un omicidio diventa faccenda di donne, confuso tra perdite, mestruazioni e ritardi, quelle robe lì. Se lo si chiamasse bambino non si potrebbe evitare di chiedere il parere – almeno “consultivo”, formula ipocrita che sta in tanti atti amministrativi – di chi, qualche mese dopo si vedrebbe investito fino alla morte, in qualità di padre, da responsabilità giuridiche, economiche, morali. Se usi il termine appropriato, permetti anche alla ragazzina incinta di essere consapevole. Consapevole davvero, non intronata dalla speciosa terminologia adoperata dalle riviste femminili e dai quotidiani progressisti. Intendiamoci, non si tratta di fare del terrorismo psicologico, anche se a volte pare che per scuotere le coscienze assonnate non ci sia altro modo. Non è necessario definire l’aborto un omicidio: basta usare termini comuni, normalissimi, che in passato sarebbero stati giudicati neutri, tecnici. Come aborto, appunto. Se soltanto, in un colloquio al consultorio, senza cambiare una sola virgola di quello che sono i normalissimi approcci, si usassero le parole aborto e bambino, invece di alludere a quell’incomodo come a una cisti, il numero di aborti diminuirebbe automaticamente. Occorrerebbe bandire, però quelli anestetizzanti come IVG. E tante altre orrende pericolose sigle. Gli acronimi sono l’ultima moda in fatto di eufemismo, l’eufemismo perfetto. Ogni ambito della vita pubblica sarebbe vivificato dall’esattezza lessicale. Sull’arte del governo Confucio sostenne che “l’essenziale è rettificare i nomi (zheng ming).Se i nomi non sono corretti le parole non corrispondono (con la realtà); se le parole non corrispondono, le attività non hanno successo; se le attività non hanno successo, i riti e la musica non fioriscono; se i riti e la musica non fioriscono, le punizioni e i castighi non colgono nel segno; se le punizioni e i castighi non colgono nel segno, il popolo non sa dove mettere mani e piedi”. La limpidezza, l’attenersi al termine appropriato, consacrato da una tradizione che non è soltanto letteraria, è un imperativo morale. Il neologismo va cercato e accettato quando ci regala più significato, non quando diminuisce o nasconde.


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