Recensiamo i recensori 5

2008-05-12 13:23:10

 

Dopo la chiusura della rivista Fernandel alcune puntate della rubrica descritta qui hanno trovato spazio sul sito Fernandel 

Ora, ospitate dal settimanale di cultura il Domenicale, potete trovare in ogni edicola le mie considerazioni sui recensori. Eccone alcune:

 

PULP

Grazie dal profondo degli occhi. Non solo per il nitore delle immagini (tutte foto di Giovanni Giovannetti, l’Avedon degli scrittori): è la pulizia dell’impaginazione di Pulp a deliziare i nostri occhi vissuti. Nella parte centrale, che raccoglie numerose recensioni, a ogni libro è riservata una colonna e, meraviglia delle meraviglie, spreco sublime, se il testo è più breve della colonna, sotto viene lasciato lo spazio bianco (grigiastro in realtà ma è meglio, è più riposante ancora). Vorrei che tutte le riviste fossero così. Dovrebbero esserlo soprattutto quelle di letteratura. 

Ma veniamo ai contenuti. Il titolo, purtroppo, determina l’impostazione. Passano gli anni ma la rivista – ora bimestrale - è incatenata al suo assunto: “in alto il Genere!”. Così la narrativa noir ha spazi e gloria e foto (a colori) anche quando non è eccelsa e un Eliade o un Cioran devono accontentarsi in ogni caso dei toni di grigio delle più brevi schede interne. 

Ci sono però segnali di cambiamento:Gennaio/Febbraio, aperto da ben sette pagine su Bianciardi, chiudeva con cinque su Maraini (Fosco, per fortuna). Il vero problema è un altro: i cascami dell’egemonia culturale. Parlo di quella strana perversione che tempo fa induceva Domenico Gallo, nel recensire Stecchiti di Mary Roach, a un inciso come questo: “Del resto alcuni cadaveri furono utilizzati in Francia per compiere studi su un argomento ozioso come quello della Sindone”. Ozioso. Oziosa la digressione, di sicuro, oziosa la recensione, ozioso il libro, ozioso il recensore, oziosa ogni attività umana. Tranne, forse, l’interrogarsi sulla Sindone. Ma per Gallo imprescindibili sono solo testi come il secondo volume de Gli autonomi con in copertina la scritta murale ‘Lavoro di merda’. Non contento dei documenti irreperibili contenuti in queste 480 pagine, Gallo attende “che si renda disponibile una documentazione completa di quegli anni esaltanti”. 

Nell’attesa, con lieve ma comprensibile ritardo, Claudio Asciuti accoglie Ernst Junger tra gli scrittori che possono essere nominati con decenza. Si rammarica, anzi, dell’interdetto che ha gravato per anni sull’opera dello scrittore. “Interdetto derivante non tanto – precisa Asciuti - dalla fantomatica occupazione degli intellettuali rossi di cui si ama tanto discettare, quanto piuttosto da un atteggiamento comune a tutta la cultura italiana (questa sì ostaggio, ma dei cattolici e dei piciisti)”. Cerchiamo di capire. L’ostracismo esisteva, dice Asciuti, ma gli intellettuali rossi non c’entravano. O meglio c’entravano in quanto facenti parte della intera classe degli intellettuali italiani. Non è appunto questo che sostiene chi parla della ‘fantomatica’ egemonia, che tutta la cultura italiana era dominata da idee paramarxiste? Ma Asciuti si tira fuori, insieme a un manipolo non meglio identificato di intellettuali talmente rossi da disprezzare (maoisticamente?) il cattocomunismo imperante. Ah, ecco perché non era egemonia. Esisteva, ma non proprio. Gli intellettuali erano ostaggi (se erano rosso chiaro) se erano davvero rossi non lo erano (erano forse carcerieri?) All’epoca “non esistevano se non rarissimi testi critici, quasi tutti provenienti dall’area della Nuova Destra e comunque introvabili”. Comunque o dunque? 

Ma insomma, basta con questa storia: avviamoci a tempi più recenti. “vennero i numi tutelari - si rallegra Asciuti – invero un po’ eretici come Cacciari”. Eretici in che senso? Rispetto alla Chiesa propriamente detta o rispetto all’altra? O rispetto ai veri intellettuali rossi? 

Oggi, in ogni caso, abbiamo uno studio organico di Maurizio Guerri, Ernst Junger. Terrore e libertà, che “non opera il tentativo di sdoganare Junger dalla forma politica originaria ma al contrario di comprenderlo nei termini del suo pensiero”. Naturalmente “privilegiando uno sguardo ‘di sinistra’ (non a caso la sua bibliografia non fa se non labili riferimenti alla vasta messe di testi critici editi a destra)”. Va detto che Asciuti non esita a sporcarsi le mani: per delineare i punti cardine dell’esistenza di Junger cita i quattro fiumi della vita di Mishima. Mishima, mica Gramsci. E lo ricita a proposito della pulsione di morte che attraverserebbe l’intera opera del tedesco. Scopriamo però che, prendendo in esame La mobilitazione totale, Guerri (o Asciuti? non è ben chiaro) ritiene gli Stati Uniti i veri maestri di questo genere di mobilitazione (ovvero dell’organizzazione produttiva in tempo di pace come se si fosse in guerra). Tutti i salmi finiscono in gloria: gli americani sono sempre un po’ più nazisti dei nazi. Egemonicamente.

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