Recensiamo i recensori 2

2008-05-12 13:23:10

 

Dopo la chiusura della rivista Fernandel alcune puntate della rubrica descritta qui hanno trovato spazio sul sito Fernandel 


Ora, ospitate dal settimanale di cultura il Domenicale, potete trovare in ogni edicola le mie considerazioni sui recensori. Eccone alcune:

 

La tensione di Citati 

Se Pietro Citati fosse un supereroe (e in un certo senso, rispetto alla critica nostrana, lo è) il suo superpotere sarebbe mutuato dal camaleonte: la critica come mimesi è la sua religione e nessuno come lui è stato capace di portarla alla perfezione (io divento Tolstoj, divento Kafka, divento Goethe). Ho immaginato perciò che fosse entrato in simbiosi anche con Eugenio Scalfari, pur senza adottare la procedura standard (leggere e rileggere per anni prendendo migliaia di appunti) dato che il Direttore non è Borges e neppure Gadda, e comunque non ce ne sarebbe stato il tempo. 

La recensione dell’ultima fatica del Fondatore,L’uomo che non credeva in Dio (definito ‘romanzo’ benché Antonio Gnoli nella stesso paginone diRepubblica lo chiami bilancio autobiografico) pare riguardare un libro estremamente stimolante, che contiene riflessioni imprescindibili sull’io. Citati evoca magistralmente i personaggi che un io non l’hanno avuto: Alessandro, che non volle essere se stesso per reincarnare Dioniso, Ercole, Achille, Ciro; Shakespeare, che fu un sistema solare, intrecciato con galassie che si perdevano nell’infinito; Pessoa, che per evitare gli altri uomini “li fece rinascere in sé”; i grandi mistici, “che non sapevano se esistevano o non esistevano: se erano manifesti o nascosti, perituri o immortali, col cuore pieno e vuoto d’amore, ignoravano di chi erano innamorati. Ignoravano perfino il proprio amore. Alla fine, dimenticavano la loro conoscenza di Dio, o la coscienza di conoscerlo”. Le considerazioni di Citati m’hanno attizzato: se le sue illustrazioni sull’io e su Dio sono così pregnanti, figuriamoci il testo dal quale queste considerazioni scaturiscono. Laddove, sempre secondo il critico, “il pensiero si svolge, oscilla, si contraddice, e rende mobile, caldo e vivace il libro”. 

Mi catapulto quindi sull’opera. Che è un bignamino di storia e di filosofia con una succinta raccolta di passi illuminanti (Rilke, Kundera, Valéry) punteggiato da domande eterne alle quali giustamente Scalfari non s’azzarda a dare risposte. Ce le sottopone però come se noi non ce le fossimo mai poste, come se non fossimo in grado di porcele da soli. Lui, così pieno di sé, così sicuro dell’esistenza del suo io, ci ha messo tanto per arrivare a porsele che quando c’è finalmente riuscito non ha potuto trattenersi dall’annotare il suo adolescenziale sconcerto. Ci spiega due o tre cose di Freud che conoscono tutti, inizia il capitolo ottavo con la frase “Per parlare di me” come se fino allora avesse parlato d’altro e comincia il nono con una constatazione folgorante: “Tra la scrittura e i pensieri c’è una strettissima corrispondenza”. 

Eppure Gnoli sembrava serio quando nell’articolo di rincalzo asseriva che il Direttore “esplora a fondo zone di pensiero impervie e rarefatte” e constatava l’importanza che “il pensiero di Nietzsche ha progressivamente assunto nella riflessione scalfariana”. Come se esistesse un vero e proprio sistema filosofico scalfariano. Mentre la banalità di questi appunti scalfariani è così disarmante che non è facile estrapolare esempi. E quel paio di asserzioni avventate che Scalfari aveva tirato fuori erano già state smontate da Citati. Rispettosamente, s’intende, ché il libro è “così amabile”. Tale la cautela che, contro un buon uso dell’italiano, Citati non scrive ‘porre’ ma ‘aggiungere’ due obiezioni. In ogni caso il critico non trova che il nostro sentimento religioso derivi dal timore della morte (nasce invece dall’immaginazione religiosa, che costituisce la parte più geniale e creativa della fantasia umana) e non crede che Dio sia morto: l’unica versione accettabile della morte di Dio è quella kafkiana del Messaggio dell’imperatore, con il suddito che “conosce il divino nella morte del divino: vive come se gli dei non ci fossero eppure sogna di loro. Perduto nel sogno, conosce un’esistenza ariosa, libera, naturale, protetta dall’immagine vespertina del sacro”. 

Ci si potrebbe consolare con i passi propriamente memoriali: l’autore ne ha conosciuta di gente,dopo tutto. Raccontando di sé, in effetti, Scalfari racconta le letture e gli incontri di una generazione. Senza lampi, però, senza personalità, senza sorprese: il tono di questo libro non è minimale, è dimesso. Svagato non per umiltà e neppure per snobismo ma per incapacità narrativa e inconsistenza argomentativa. “Eravamo al Cova” e il nostro snocciola nomi famosi senza regalarci un solo aneddoto illuminante o almeno carino. Il Fondatore tratteggia sommariamente piatti episodi della sua vita sapendo che noi li troveremo comunque significativi: sono o non sono episodi della vita di un gigante? A noi distillarne il senso, dotarli di spessore. In un paio di paragrafetti di scandalosa reticenza racconta degli accordi per la costituzione di Repubblica. Finale: “Fu una bellissima serata ed io ero molto felice”. Con la ‘d’ eufonica, che rimpolpa e nobilita la frase. “Mi fermo qui” - conclude, come i conduttori di tiggì - in fondo ci sono tanti libri e tesi di laurea su quella faccenda. 

“Ci vuole una certa tensione romanzesca applicata alla critica” afferma Citati nel suo sito. Questa volta ce n’è voluta parecchia, di tensione. 

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