Una questione di famiglia

2007-05-29 20:18:50

 

Musica e genetica

 

sul Corriere della Sera - Puglia, 29 maggio 2007

 

Avrebbe potuto’. E’ il refrain dei mediocri, dei perdenti. Vincenzo Taliento, invece, avrebbe potuto davvero. Ha potuto anzi: a soli 23 anni primo violino al Teatro dell’Opera di Roma passando sotto la bacchetta di Mascagni e di Antonino Votto,  poi al Petruzzelli con Pasquale La Rotella. 

 

Suo padre, in seguito, avrebbe mostrato ai nipoti, come fosse una reliquia, l’incavo in una chianca del pavimento di casa, scavato dal battito del piede di ‘Nzino, che su quella chianca, esattamente in quei centimetri, si era esercitato per tempi lunghissimi. Autodidatta (giusto qualche perfezionamento a Pesaro) suonò con – o contro – il famoso boemo Vasa Prihoda, uno dei pochissimi ad aver avuto il permesso di suonare il violino di Paganini. 

 

Tutto questo prima della guerra, e prima del matrimonio, benedetto – come si diceva - da undici figli. Esiste un destino meridionale: la calamita riacciuffa ancor oggi bocconiani con quindici master che lavorano a Londra nelle banche d’affari o specialisti a cui è stato chiesto di rimanere a Boston nelle cliniche oculistiche. E te li ritrovi qui, a sudare e forse a imprecare silenziosamente, non felici forse, ma QUI, senza più buoi ma con la moglie, e il sedano, dei paesi tuoi.

Dopo lo stop della guerra molti ricominciarono. Non abitavano nel tacco, però, e forse avevano famiglie meno numerose. Un latianese (d’adozione, perché ilProfessor Taliento era nato a San Vito dei Normanni) poteva al massimo ricominciare dal Politeama di Lecce, da dove, a fine concerto, ritornava in bicicletta a casa (una cinquantina di chilometri). Lì lo scovò - in quinta fila - De Sabata: “Cosa fa lì dietro, venga qui”. ‘Nzino era fatto così, non sgomitava: nei tempi difficili ha suonato per le operette ma si accontentava anche dell’ingaggio in una banda (tutta un’epopea quella delle bande del Sud) e non poteva certo limitarsi al violino: se serviva il clarinetto suonava il clarinetto e quando mancava il direttore dirigeva con la massima tranquillità. Non c’erano ruoli che non potesse assolvere: componeva anche. E aggiustava: ha insegnato a tre dei suoi figli come restaurare i pianoforti e quelli hanno messo su una delle migliori imprese artigianali del meridione. Lui i pianoforti li accordava. Disponeva, ovviamente, di un orecchio assoluto. “Vedi questo? – ridacchiava tirando fuori dal taschino il diapason – ce l’ho sempre appresso, che i babbioni non si fidano”. 

 

Come se Papanonno (così lo chiamavano tutti) avesse bisogno del la: Vincenzo Taliento coglieva la minima sbavatura in qualsiasi esecuzione di voce o strumento anche in brani del tutto sconosciuti. Non dal ritiro ascetico di uno studio dalle pareti insonorizzate ma nel più caloroso - e rumoroso – degli ambienti familiari meridionali, quello in cui sono cresciuti i figli e, soprattutto, le nipoti. Un gineceo (le figlie femmine erano in maggioranza) in cui la musica era tutto. Radio, giradischi, strumenti, e soprattutto voci: negli ultimi giorni il vecchio – che modulava la voce, sottile, con l’abilità di un Tito Schipa - sognava di continuo cori: “Un coro perfetto, Marcuccio mio, davvero intonato, come non se ne sentono mai, raccontava a Marco Balderi, che aveva riconosciuto dal tocco delle mani sulla tastiera del pianoforte di casa nonostante fosse a letto, poco lucido ormai (non abbastanza da riconoscere i volti dei familiari ma abbastanza per riconoscere un tocco su una tastiera). Tutti cantavano. 
Non è scontato, in Puglia, benché ogni festa patronale contempli la cassarmonica: non siamo napoletani e la gente tendeva tuttalpiù a strimpellare. In casa Taliento, invece, era tutto un intonare, un duettare, un riprendere. Così, sfaccendando, cenando, battibeccando. Oggi la più esile vocina di qualsiasi pargolo viene ‘auscultata’ con trepidazione da famiglie adoranti, e subito incoraggiata, protetta ed esaltata. Allora si era ipercritici, il patriarca sbuffava e distribuiva scapaccioni (se proprio andava bene ti mordicchiava un orecchio). Così i figli si sono limitati a cantare in casa, a duettare con le loro bambine. E due bambine, poi, il canto l’hanno studiato. 

Secondo uno studio sui gemelli monozigoti della neuropsicologa Isabelle Peretz dell’Università di Montreal, l’orecchio assoluto si trasmette geneticamente. Non solo quello, evidentemente: Anna Rita Taliento, una delle nipoti, è stata Violetta all’inizio del mese nella Traviata di Zeffirelli e ora è a Sidney per il Requiem di Mozart. Ci sarebbe un elenco di eventi da snocciolare, tra cui le esibizioni in Vaticano o per il Presidente della Repubblica, ma il più sorprendente fu l’entrata in scena come Musetta nella Boheme del Centenario. Un’irruzione, più che un’entrata. La presenza scenica è sempre uno degli elementi della valutazione di un cantante ma la disinvoltura di un’interprete così giovane in un’occasione così importante pretendeva il ricorso ad altre categorie. Sia Anna Rita che la cugina Rachele Stanisci (voce più spinta, inclinazione più drammatica) cantano come respirano. Chi ha avuto la fortuna di frequentarle quando erano liceali, ha potuto assistere a siparietti irreali in cui queste esuberanti ragazzine dal diaframma come un mantice, accovacciate in poltrona o salendo le scale, passavano senza soluzione di continuità da una frivola chiacchierata a un’aria spinta, con emissioni di potenza lancinante. Mai viste ‘concentrarsi’. Ci si concentra forse per respirare? Lo studio? Termine improprio. Sì, al pianoforte hanno forse sudato un po’ ma per il canto meglio parlare di affinamento. In quanto alla recitazione, quando le altre ragazze studiavano da Barbie, loro sono state Violetta e Tosca e Cio-Cio-San. 

Rachele Stanisci era attratta da quelle donne, dalle loro passioni. Quelle erano le sue emozioni. Se pensate che una soprano sia quella mummia preoccupata dalle correnti d’aria che vi è capitato di veder artigliare il pianoforte a cui si appoggia per trarne forza all’approssimarsi del passaggio difficile, dovreste osservare il sorriso gioioso di Rachele Stanisci mentre canta. Io l’ho visto giorni fa all’Olmi, lo storico Cine Teatro del paesello, dove l’Associazione Culturale Hesperia è finalmente riuscita a organizzare un concerto per i concittadini. La presentava Ferdinando Parlati, musicofilo: “E’ sempre stata completa: fin da bambina centrava il personaggio, all’occorrenza allegra e tragica, nell’atteggiamento, nella voce, nel colore. Questo le consente di interpretare ruoli diversi con la stessa disinvoltura e soprattutto dà a un direttore d’orchestra una formidabile sicurezza: indisposta o no farà quel che c’è da fare. Quando ebbe l’approvazione del nonno per studiare, capimmo tutti che ‘il materiale’ era di prima qualità. I successi ottenuti sono una conferma non necessaria per quelli che, come me, che hanno avuto la fortuna di frequentare quella famiglia”. 

La famiglia, già: dove la regale interprete verdiana si trasforma nella più gioiosa e dinamica delle mamme. Quando smette i panni della soprano alla Fenice di Venezia o al Regio di Torino o al Teatro Municipal di Santiago del Cile, Rachele si rilassa con i Depeche Mode o Vasco Rossi, Mina o la salsa. La sua Rebecca ha diciassette mesi e, per grande fortuna, una nonna di quelle del Sud, pronta ad accudirla ovunque, così fra poco Rachele potrà partire tranquillamente per Barcellona e fare la Norma al Liceu. 

 

 

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