Un conservatore relativista

2007-07-21 18:41:30

 

Versione integrale dell'articolo pubblicato su Stilos n. 14, 10 luglio 2007


Alfieri di valori granitici, i conservatori sono fieri avversari del relativismo, e anche Roger Scruton non risparmia bordate contro ogni genere di pensiero debole. I suoi valori però sono legati al senso comune (comune a una cultura) quindi non universali. Nonostante le aspre critiche al

 

pragmatismo come scuola di pensiero il filosofo inglese è ben dotato, da vero anglosassone, di virtù pragmatiche. Non difende perciò i suoi valori – o la sua religione – in quanto “migliori” ma in quanto “più adatti”. Adatti a un popolo, giusti per un paese. L’immutabilità riguarda il tempo, non lo spazio. Posizione difensiva, aliena da proselitismi.Adottando il titolo Manifesto dei conservatori per la traduzione di A political philosophy, la raccolta di saggi di Roger Scruton, sarebbe stato opportuno aggiungere al sostantivo ‘conservatori’ l’aggettivo ‘inglesi’. Il filosofo infatti parte da Burke, cita reiteratamente la Chiesa Anglicana e fonda sulla common law quel senso comune – o buon senso - che invoca per tutto il libro e che non va confuso con il pragmatismo, specie nella versione di Richard Rorty, che è in realtà un progetto postmodernista “adatto a gente per cui non esistono verità obiettive ma solo progetti politici conflittuali”, una visione in cui anche le formule della fisica sono ‘sessuate’ e “le concezioni rivali del mondo sono semplicemente aromi contrastanti in una dieta piena di dubbi”. E’ ai Tories, chiarisce il polemista nella prefazione, e non a un generico movimento conservatore transnazionale, che vuol regalare ‘consistenza filosofica’. 


Molto isolano, insomma, questo suo tentativo di costruire una solida difesa dello stato-nazione. Ma, come capita anche nell’arte, un’accurata esplorazione provinciale conduce spesso all’universalità. E così nel primo saggio, Conservare le nazioni, il concetto di oicofobia, adottato ampliando l’accezione greca per definire il bisogno irrefrenabile di denigrare usi, costumi, cultura e istituzioni che siano tipicamente “nostri”, assomiglia molto all’odio di sé dell’intera Europa, punto centrale del discorso tenuto al Senato italiano nel 2004 dall’allora Cardinale Ratzinger, tanto che Giuliano Ferrara nella prefazione può rallegrarsi di una possibile alleanza tra un pensiero europeo-tedesco erede dell’ellenizzazione e del diritto romano e un pensiero anglosassone scaturito dal diritto consuetudinario.

 

Ma a lettura finita è proprio il termine ‘manifesto’ che risulta forzato: da un manifesto si attendono esortazioni se non proprio indicazioni precise. Da un manifesto conservatore, poi, per reazione al pensiero debole, ci si aspetta l’esibizione di valori assoluti, idee fortissime e risposte categoriche. Nulla di tutto questo in Scruton. Il suo è un approccio problematico, apertissimo: “non tutti i problemi morali sono risolvibili e qualche volta l’insolubile natura del problema rispecchia quanto vi è di più profondo e prezioso nella vita che lo genera” Così, nel mondo auspicato dal filosofo, “l’eutanasia presenterebbe esattamente gli stessi problemi di oggi”. Irrisolvibili. Ma un suggerimento Scruton lo azzarda: la legge non dovrebbe entrare in gioco e, senza manifestatamene consentire il suicidio assistito, concedere alcune prove a discarico in una causa di omicidio colposo. Nulla di reboante, un atteggiamento dimesso e compromissorio. Soprattutto discreto. Ricorda quello che si è sempre tenuto nei reparti degli ospedali italiani, dove, specie nel caso di neonati destinati a morte sicura, le equipe si addossavano certi fardelli senza neppure avvisare i genitori (ecco come si spiega che nessuna mamma si sia mai ritrovata a contemplare un neonato con due teste).

 

Oltre che dell’eutanasia il filosofo si occupa di tutti i temi caldi: ambientalismo, terrorismo, animalismo, matrimonio, religione, totalitarismo, europeismo. E non può esimersi dall’affrontare il problema della natura del Male. Il maiuscolo è mio ma rende l’atteggiamento dell’autore: “Dire che il Diavolo, invocato in questo modo, sia una mera metafora, significa reiterare il problema: perché solo questa metafora si insinua nel nostro linguaggio quando cerchiamo di rendere giustizia dei fatti?”. Intendiamoci, non è che Scruton voglia convincerci dell’esistenza del diavolo, è solo uno dei molti casi in cui si mette in ascolto delle parole quotidianamente utilizzate, che non sono mai molto lontane dalla verità: le descrizioni rigettate dagli scettici come metafore “richiedono un esegesi metafisica”. Non c’è un capitolo dedicato al sesso in quanto tale e non solo perchè ce n’è uno dedicato al matrimonio, ma soprattutto perché l’aspetto sessuale viene trattato massicciamente nel capitolo dedicato al male: “A me sembra che la gente del Medioevo non si sbagliasse pensando che il sesso è la porta attraverso cui il Diavolo entra nelle nostre vite”. Scandaloso, vero? Neanche i parroci di montagna si sognano più di borbottarlo. La tranquilla esposizione di concetti come questo (estrapolato brutalmente a bella posta da pagine ricche di argomentazioni ben più complesse) è uno degli aspetti che dovrebbero incuriosire l’acquirente indeciso.

 

Scruton non è interessato a propugnare questa o quella religione (la religione in fondo è soprattutto una sorta di politica ‘illuminata’, “una modalità per cui gli interessi a lungo termine della società possono ispirare le decisioni a breve termine dei suoi membri viventi”) anche se ha un debole per la Chiesa Anglicana (nulla di trascendentale, si tratta, pragmaticamente, della più adatta alla nazione inglese, e gli altri si arrangino, perché la credenza religiosa non é legata solo al bisogno di unità della specie umana ma anche al “bisogno di possesso e difesa del territorio”), ma mette in guardia dai guasti dell’Illuminismo – o di certi esiti dell’Illuminismo – che costringono il sacro, allontanato dalle fiaccole della ragione, a riemergere in forme grottesche.

Non è un allarme nuovissimo (Julien Ries, tanto per fare un nome, se ne è occupato frequentemente). Però Scruton – che trova una bella immagine per questo danno collaterale: “La forma estrema dell’illuminismo, lo scientismo che scaccia tutte le ombre, è anche una sorta di ‘inquinamento luminoso’ che ci impedisce di vedere le stelle” - distingue nettamente una prima fase della secolarizzazione, nella quale grandi pensatori laici continuano a riscontrare nel mondo il marchio di una religione condivisa, dove l’individuo libero brilla ancora di una luce ultraterrena, dove lo scopo celato di tutte le opere è quello di nobilitare la condizione umana perché, pur avendo respinto alcune dottrine metafisiche, vivevano nel mondo che la fede aveva plasmato, “un mondo di impegni certi, di matrimonio e amore, di esequie e di battesimi”, dalla “seconda ondata”, col suo alone di necessità pressante e di smodata avversione nei confronti dell’opposizione, che ricorda le sette religiose.

 

Per Scruton non è solo questione di credenze e dottrine, ma del modo in cui una vita accompagnata dalla religione è diversa, a ogni livello, da una vita che ne è priva. Nietzsche, che intendeva attuare il superamento della religione con una vita ‘al di là del bene e del male’, cioè una vita di assoluta e insopportabile solitudine, è impazzito prima di arrivare a quel punto “e il suo esempio dovrebbe esserci di monito”. A Nietzsche Scruton oppone Wagner (la religione come elaborazione di un segreto che trova nell’arte la forma più eloquente) e i suoi epigoni, Sir James Frazer e poi Jessie L. Weston: le verità racchiuse in una religione non sono rivelate bensì celate dalle dottrine che essa enuncia, ma il modo di pensare religioso sopravvive perché, al livello profondo che solo il simbolismo può raggiungere, si è saldamente ancorato alle verità durature della condizione umana.

 

Il docente di Estetica riscontra la secolarizzazione anche nell’architettura, nell’ostilità per le modanature che “creano spazi d’ombra dove gli ultimi dei potrebbero celarsi”: non esiste più una città celeste da costruire nella pietra “ma solo vitree risate di spirito inopportuno”. L’architettura ha un posto fondamentale anche nella genesi dell’attacco alle Torri Gemelle: Mohammed Atta stava preparando una tesi sull’antica Aleppo, una città musulmana, un luogo sacro in cui nessun edificio può emersi più alto di una moschea. Le folle che hanno gioito l’11 settembre non erano neppure consapevoli della vera fonte della loro emozione, un’emozione estetica, legata in qualche modo alla geometria sacra. Scruton non ritiene che si possa invertire questa ondata di dissacrazione ma invita ad ascoltare le persone comuni, vittime di questa aggressione, che danno voce a sentimenti che ci illudiamo di aver superato. Ed è solo una pia illusione che i problemi causati dalla secolarizzazione siano risolvibili dalla formuletta della libertà di culto, secondo la quale ognuno è libero di pregare chi gli aggrada in casa sua: la religione non è solo credenza e dottrina ma cerimonie, appartenenza, ostilità viscerale verso il sacrilegio.

 

Il punto fondamentale delle argomentazioni del pensatore inglese è, in qualche modo, il contratto sociale. Scruton trova spropositata e fuori centro l’importanza attribuita al contratto tra ‘coetanei’. Se si perde la percezione del patto implicito con i morti e con i non nati, siamo destinati all’irresponsabilità. E’ in virtù di questo patto che i partiti conservatori, sempre che se ne rendano conto, sono gli unici movimenti davvero votati all’ambientalismo. A proposito dell’animalismo, invece, Scruton pone un’obiezione fondamentale alla tesi di Richard Ryder, che ha coniato il termine “specismo” per sottintendere che la discriminazione delle bestie è simile al razzismo: la differenza non sta nella specie ma nella distinzione tra un essere morale, che vive come soggetto e oggetto di giudizio e un essere-non-morale (viene in mente Raffaele La Capria, che nel suo recentissimo Guappo e altri animali rimarca la distanza tra noi e i pur amatissimi animali, “più invalicabile di un abisso”). Partendo da acute considerazioni sulla presenza di cagnolini da salotto nei nudi del Tiziano, Scruton ci rammenta che non abbiamo elevato lo statuto degli animali bensì abbassato il nostro: più eliminiamo dall’uomo la trascendenza, più consideriamo noi stessi come semplici animali, più importanza dobbiamo annettere alle bestie.
Ai vegetariani il filosofo ricorda che gli antropologi, disorientati tra i mille codici alimentari, hanno dovuto concludere che ingerire non è solo un’azione del corpo ma anche dell’anima. Il consumo di carne è legato ai riti, al dono, all’ospitalità. Di sicuro va deprecata l’ingordigia del solitario che si rimpinza di hamburger, indifferente al modo in cui quell’alimento è ottenuto, ma non ha senso parlare di ‘vita prematuramente interrotta’ a proposito di un animale allevato con metodi tradizionali nella campagna (inglese, of course) e poi “onorato” del consumo all’interno di una ritualità che da Omero a Zola è stata descritta come “l’irruzione del divino spirito di pace nel mondo degli umani conflitti”. Occorre però ‘rimoralizzare’ le nostre abitudini carnivore. Donare un senso ad esse così come andrebbe donato a tutte le abitudini della nostra vita.

 

L’economia e le vicende storiche non bastano a spiegare certi atteggiamenti, così Scruton, che diffida alquanto dell’antropologia, perché, più di qualsiasi altra disciplina, ha uno sguardo “dall’esterno” inconciliabile con la prospettiva dell’”esaminato”, si serve della psicologia, oltre che della sociologia. “Chi ha un senso dei suoi diritti sovradimensionato e, di contro, una capacità minuscola di meritarseli, sarà portato a dichiarasi contrario al modo normale e socievole di vivere con gli altri… Sembra che gli intellettuali siano particolarmente inclini a questo tipo di rancore generalizzato, al ressentiment, una disposizione d’animo virulenta e implacabile che preesiste al torto di cui si lamenta”.

E’ scioccante scoprire che il viaggio ideologico dei comunisti dell’Europa centrale viene rifatto da ogni generazione di persone pensanti, in particolare da chi gode della protezione di ricche università e dei privilegi dell’economia capitalistica. Ma è anche naturale, dato che l’astuzia teologica del pensiero di Marx ha fatto passare la teoria di classe per scienza, consentendo così all’élite intellettuale di assumere il ruolo ‘pastorale’ in precedenza assolto da altre figure. E se è vero che il marxismo è una sorta di gnosticismo, allora il linguaggio pomposo e inintelligibile di tutta la cultura filosofica e letteraria francese, basata sul ripudio della rispettabilità borghese e della cultura cattolica, residui del diabolismo romantico e di un lungo amoreggiamento col partito comunista, è di sicuro il mezzo più efficace per la diffusione delle idee della sinistra. 

L’attenzione al linguaggio percorre tutto il libro ed è centrale nel capitolo sull’eurocratese, per il quale valgono le stesse peculiarità sintattiche messe in rilievo da Francois Thom in La langue de bois a proposito della neolingua comunista: l’uso di sostantivi al posto dei verbi diretti, la preferenza della forma passiva e della costruzione impersonale, l’uso di comparativi al posto dei predicati, l’onnipresenza del modo imperativo. Tutto l’armamentario di chi voglia far passare per inevitabile necessità quello che desidera imporre, mascherando sotto l’ideologia dell’inclusione la ferma volontà di escludere chi, come Rocco Buttiglione, può rappresentare una minaccia per la corrente dominante. Secondo Scruton l’irresponsabilità (in senso tecnico) dei burocrati europei non può che portare al dispotismo e poi all’anarchia. E non si tratta di qualità della classe dirigente: per il filosofo conservatore la democrazia può avere solide fondamenta solo nella lealtà nazionale. Il pensatore però non precisa il suo atteggiamento nei confronti della lealtà irlandese, o scozzese. E un italiano, per quanto offeso da certe legislazioni sui latticini, non può non riflettere sul fatto che le poche innovazioni civili degli ultimi decenni ci siano state imposte dalla Comunità europea, vale a dire da una macedonia di quegli stranieri che nel passato venivano a imporre i loro codici innovatori in ordine sparso.

Nel capitolo finale, che potremmo definire un saggio di critica letteraria, Scruton mette a fuoco i suoi temi attraverso le opere e il pensiero dell’inglese per vocazione Eliot, “un comune borghese la cui ricompensa più grande è vivere inavvertito fra chi non sa alcunché della sua arte”, del tutto estraneo allo stile enfant terrible di Cocteau e all’aggressività antiborghese di Sartre. Eliot sapeva che la vera originalità è possibile solo all’interno di una tradizione. Nulla a che vedere con la nostalgia del passato “che è un’altra forma di sentimentalità moderna” mentre il conservatorismo “è esso stesso un modernismo”. Il proposito della cultura dovrebbe essere quello di conservare l’osservazione intelligente del mondo umano, quella cosa fuggevole che è detta buonsenso (sensibility) ed è “l’abitudine al giusto sentimento”. Il compito dell’artista non consiste nel ripudiare ma nel riconciliare.
Meditando su Dante, sull’impossibilità di apprezzare la Commedia rifiutando la dottrina che l’ha ispirato, Eliot pensava che il venir meno della fede non lascia un paesaggio disboscato e scevro di ingombri in cui la gente può essere finalmente vista per quello che è ma elimina il potere di percepire altre e più importanti verità sulla nostra condizione, perché le verità che contano sono verità di intuizione, che la scienza nasconde scatenando una “pioggia di fantasie” come umanesimo e utilitarismo. Il grande paradosso è questo: le menzogne della fede ci consentono di percepire le verità che contano mentre le verità della scienza le nascondono.

 

Ecco il compito del poeta: un lavoro di purificazione della parola, della visione, un dialogo di pochi attraverso le generazioni, mentre la massa dell’umanità si smarrisce nelle retrovie, assalita da “indisciplinate squadre di emozioni”. Il poeta non può ignorare la religione perché il linguaggio della religione è l’unico che accomuna la cultura di base della gente e la grande cultura dell’arte. Per Eliot il vero significato della religione non sta nella dottrina astratta ma nelle istituzioni che fanno sì che essa duri, e nei sacramenti e nelle cerimonie in cui l’eterno diventa presente. La religione tradizionale custodisce i simboli e le storie ai quali poeta e critico possono tornare per entrare più profondamente nella storia, in modo da trovare in ciò che è puramente transitorio il marchio e il segno di ciò che non finisce mai. Il compito del poeta, come quello del santo, è scoprire “il punto di intersezione tra il senza tempo e il tempo”. Essi “riscattano il tempo”, trovando nel suo flusso quei momenti senza tempo che indicano qualcosa al di là di esso.

“Noi nasciamo coi morti” è uno dei molti versi dall’ultimo dei Quattro quartetti citati da Scruton: solo chi ascolta la voce di chi non c’è più è in grado di proteggere chi non è ancora venuto al mondo, e il compito del critico è quello di “riscoprire il mondo che ci ha dato vita, di vederci come parte di qualcosa di più grande. Per far questo dobbiamo sempre pazientemente sottometterci alla voce dell’ordine e dare un esempio di vita rispettosa e bene ordinata”. Una ricetta tra Gozzano e De Amicis, scandalosa, sconvolgente, rivoluzionaria.

 

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