Chi ha gettato Trevisan?

2007-04-22 20:12:08

 

Geworfenheit è una parolaccia?

 

Linnio Accorroni è rimasto impressionato da ‘Il ponte’ di Vitaliano Trevisan (Einaudi). Ha apprezzato in particolare un brano che ‘illustra’ il termine Geworfenheit, ricorrente in Heidegger. Il personaggio di Trevisan si sente, appunto, “gettato nel mondo”. Ma non siamo nella sfera astratta della condizione esistenziale: Trevisan sembra interpretare letteralmente l’espressione, la riveste di carne. “Mio padre e mia madre


si sono sposati perché nelle loro teste ottuse il matrimonio, e i figli, erano l’unico modo per dare un senso alla loro esistenza, perché così era stato loro insegnato, e, com’era stato loro insegnato, quando è stato il momento, sono caduti, come si dice, una nelle braccia dell’altro, senza sapere niente l’una dell’altro, e per quegli stessi motivi hanno fatto dei figli, prima le mie due sorelle, e poi, dopo averci pensato e dopo aver deciso che un maschio era necessario, hanno gettato nel mondo anche me, sempre per le stesse ragioni che non mi riguardano… Abbandonato prima di nascere, è così che mi sono sempre sentito”. 

Non mi stupisce che il critico sia stato colpito da questo passo, e lo riporti (su Stilos) dopo essersi diffuso sull’etimologia del termine heideggeriano. E’ una pagina esemplare, che non si limita a render conto della patologia di un personaggio per descrivere il quale Trevisan usa il lemma tedesco ‘Nestbeschmutzer ’(insozzatore del proprio nido) ma illustra una concezione nichilista parecchio diffusa che attacca l’istituzione familiare. Non parlo del perennemente aggiornato corollario di motti di spirito, sarcasmi, ridefinizioni, da Wilde a Engels, quel sano modo di ridimensionare le melensaggini sul menage familiare. Mi riferisco a posizioni che non sono più semplicemente paradossali e provocatorie, ma contemplano seriamente l’azzeramento dell’istituzione: i media traboccano di servizi che si sforzano di presentare il matrimonio ‘borghese’ come un curioso accidente della storia. Appare preferibile la famiglia allargata (versione moderna del modello patriarcale) e fin qui si potrebbe anche concordare. Alcuni però si spingono a un modello che, nella più favorevole delle formulazioni, somiglierebbe a quello degli uomini blu o dei kibbuz, ma che facilmente scivola nel peggiore degli incubi totalitari, un’esasperazione delle consuetudini di Sparta. 

Quello di formare una coppia procreante, insomma, non si vuol più considerarlo un modello naturale (neppure nel senso di semplice, ovvio, comodo, funzionale) ma un’imposizione capotica: “com’era stato loro insegnato”. “L’unico modo per dare un senso alla propria esistenza”. Mi sembra di riascoltare le dichiarazioni di Alberto Moravia: “Noi scrittori non abbiamo bisogno di far figli per assicurarci l’eternità: la nostra prole è costituita dalle nostre opere”. Ma la maggior parte degli scrittori era ed è sposatissima. E lo era Marx, come lo era Freud. Quello che intendeva dire Moravia, probabilmente, era che un artista soffre meno la mancanza di figli. Ma chi artista non è, quanti altri modi ha di dare un senso alla propria esistenza? Ascetismo a parte, s’intende. Cosa c’è di innaturale nel “cadere tra le braccia l’uno dell’altra” e sposarsi se anche i gay non desiderano altro? Se anche loro – che amano considerarsi trasgressivi e venivano fino a pochi anni fa considerati ‘perversi’ dalla psicoanalisi – ritengono che l’unico modo di dar senso alla loro esistenza sia quello di adottare, quando non possono procreare?

Che mondo prefigurano questi sprezzatori della coppia procreante? Non aspirano, che so, alla fecondazione in provetta generalizzata o - direttamente - alla clonazione, come gli aderenti alla famosa setta, ma aspirano all’estinzione del genere umano. Troppo traumatizzante quella “deiezione”.


 

 

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