Lo stereotipo è razzista. Ma anche no

Ricognizione e collage. Senza la consultazione dei  link (sottolineati) questa esplorazione rischia di aggiungere confusione a un argomento che ne è già ricco.

 

Come spesso succede riesco a trovarmi in disaccordo con tutti: sia con i fautori dell’accoglienza indiscriminata, da Papa Francesco all’intellettuale engagé, sia con gli acerrimi nemici dell’invasione, da Salvini a molti cari amici. Impossibile discutere seriamente dell’immigrazione. Chi vede qualsiasi forestiero come un nemico, principale fonte dei nostri guai, aggredisce i fautori dell'accoglienza, per i quali chiunque sia contrario – o appena un po’ critico su numeri e modalità - all’immigrazione è razzista (quando di solito è uno xenofobo). Fine della discussione. Io mi definirei 

etnista, che non consiste in una versione meno genetica del razzismo ma nel riconoscere la bellezza e la ricchezza delle differenze umane. Dato al colore quello che va dato (mai più un viso pallido vincerà una cento metri così come, di converso, nessun colorato vincerà mai la stessa distanza in acqua) e nulla più, devo riconoscere che un salutare pregiudizio accompagna genericamente i miei approcci ai popoli. Parlo di caratteristiche relative alla storia, alla cultura, all'ambiente; di categorie spesso astratte, generiche, che però sui grandi numeri c’azzeccano. Gli storici sono ormai costretti dai dogmi del politicamente corretto a fingere che nelle vicende internazionali non siano coinvolti i popoli, con la loro psicologia e il loro millenario modo di comportarsi (come se noi, ad esempio, nell'analizzare le vicissitudini del Bel Paese, potessimo prescindere dalle considerazioni di Dante, di Leopardi, di Barzini, sul nostro carattere, che riaffiora sempre più evidente in tempi critici come quello presente). Per fortuna mi confortano i seguaci anglosassoni dell'anthropological history come Peter Burke, che avvertono: "luoghi comuni e stereotipi costituiscono per lo storico non tanto un ostacolo quanto un aiuto in vista della ricostruzione delle regole della cultura"; "il termine 'stereotipo' rappresenta la connotazione spregiativa di ciò che i sociologi e gli antropologi preferiscono chiamare 'modello'". 

 

Ma di solito sono più interessato agli individui, che non mancano di sorprendermi, specie quelli che mi ritrovo in casa: spesso diversi – nel bene e nel male - da quelli che restano al loro paese. Sempre per quel che mi riguarda i forestieri che aborro di più sono alti e biondi. E’ la loro invasione che temo.

 

Ci sono poi i veri razzisti (pochissimi) e gli xenofobi (parecchi di più) che non stanno a fare tante sottili distinzioni. Non c’è nulla di strano, in fondo: si tratta di uno dei fondamentali strumenti di difesa, attiene all’istinto di conservazione. I più razzisti, ovviamente, sono quelli che, non avendo potuto frequentare Naomi Campbell al Billionaire, di colorato conoscono solo la peggiore teppaglia che vive accanto ai loro Bilocali. Ma il razzismo va subito eliminato dal discorso: è semplicemente un atteggiamento alquanto irrazionale che si sovrappone a resistenze tutt’altro che irrazionali.

 

Veniamo alla ragione dunque, che del sentimento parleremo poi: la prima seria distinzione è tra il fenomeno e le modalità. Chiunque abbia letto il demenziale volantino che andiamo lanciando sulle coste barbaresche si rende conto che c’è qualcosa che non va. Qui non si tratta più di accoglienza ma di accaparramento: è grottesco che si tenga in esercizio una flotta per raccattare chiunque (uno stimabile amico ha proposto anche una diversa soluzione, se proprio non se ne potesse fare a meno). E non si parli sempre di rifugiati, che pure ci sono: qui si raccatta di tutto, delinquenti incalliti, potenziali terroristi, furbetti pronti a sfruttare la nostra dabbenaggine, fondamentalisti che aspettano solo di piazzare la mezzaluna sulla cupola di Michelangelo. Questa operazione – unita alla cancellazione del reato di clandestinità – farà del nostro paese un’immensa Calcutta. Che nessuno pensi a un’insipienza delle nostre èlite: tutto ciò fa parte di un piano preordinato. Che, ovviamente, viene presentato come un nobile disegno sotto vessillo antirazzista. E addio possibilità di critica.

 

Parliamo ora di soldi, dai quali molte anime belle distolgono disgustate lo sguardo. E’ perfettamente inutile chiedersi quanto costano certe operazioni (militari, assistenziali, sanitarie, di rodine pubblico) perché lo sappiamo benissimo: significa meno soldi a malati gravissimi, significa altri balzelli, significa meno risorse per qualsiasi operazione di rinascita del paese. Significa lasciar vivere negli androni vecchi italiani che hanno lavorato e pagato le tasse perché le case popolari vanno – legalmente o illegalmente – ai nuovi arrivati. I quali, se non si vedono assegnate  le case popolari, si impossessano di case momentaneamente vuote, anche qui da noi, in paese, in campagna. Devastandole. Una volta sfrattati, senza alcuna sanzione, ci ritornano e se la trovano occupata se ne cercano un’altra. Guai però se  le famiglie italiane occupano uno stabile pubblico: a tempo di record il Comune taglia acqua, luce e gas. A pochi chilometri da lì il Comune si assume l'onere di pagare le bollette agli zingari.

 

Qui la gente si suicida senza alcun aiuto. E il primo che arriva – anzi che viene prelevato e scortato – ha diritti d’ogni genere.  

E' vero che loro fanno lavori che non facciamo più: pastori, badanti (per lo più costoro sono di nazionalità che hanno poco a che vedere coi barconi) ma è anche vero che certi mestieri, come quelli di campagna, che ormai vorremmo fare di nuovo, ci sono preclusi perché i poveracci accettano paghe improponibili. Una volta gli uomini di sinistra, quelli veri, li avrebbero combattuti come crumiri. Adesso i sinistri figuri li accolgono francescanamente. E questa è una parte del disegno: mano d’opera a basso costo, e si fottano i concittadini. E mentre i sudditi ingenui, quelli che 'prima loro', ammirano i politici generosi, parecchi ci marciano.

 

Ma, mi si oppone, l’immigrato è una ricchezza: solo il suo lavoro e i suoi contributi possono far sopravvivere una civiltà suicidata come la nostra. E qui non posso che trovarmi d’accordo: io desidero ardentemente che popoli giovani, ancora vivi, prolifici,  affollino le nostre contrade e le ripopolino di bambini: sogno bambini che riempiano le strade, gli asili , le aule, le piazze e le strade e che domani versino contributi che garantiscasno la pensione anche a me. Pare non ci sia altro argine alla nostra sciagurata denatalità. Ma altri amici si inalberano: questi migranti non saranno mai parte della nostra nazione, non si integreranno mai. Hanno ragione: se non si sono integrati in tessuti coesi di nazioni di lungo corso (vedi banlieue parigine e ghetti americani, ma anche in Olanda, Svezia, ) figuriamoci nella nostra sempre più sdilinquita società. E’ un male? E qui rispondo scontentando molti: forse no. Se la nostra cultura fosse quella di una volta, se i valori da difendere fossero quelli di Don Camillo, avrei già impugnato il forcone, ma se la civiltà è questo mondo di amebe senza un sesso, senza sangue, senza valori, senza timor di Dio, senza cognizione della storia, dell’arte, della tradizione, mi arrendo immediatamente all'irrompere di gente che ancora crede a Dio, all’autorità, al pudore. A gente che 'l’usura è un peccato'.

Ed ecco che ho scontentato anche gli altri, che vogliono accogliere tutto ma poi non vogliono vedere il velo, non vogliono che le donne stiano a casa, non vogliono che i bambini rom stiano a mendicare.

 

Insomma, quale identità dovremmo difendere? Qual’e esattamente la nostra identità? La mancanza di identità, forse, dato che in fondo la nostra ricchezza è stata il meticciato. Siamo sempre stati terra di attraversamento, di conquista, di stupro. La lingua, i costumi, il gusto, sono sedimenti di mille razze, mille culture. Passai mezz’ora con un prete nella cattedrale di Otranto prima di capire che quando diceva noi si riferiva alla Chiesa d’Oriente.

Siamo una nazione da poco (sia nell’accezione temporale sia in quella quantitativa) ma abbiamo sempre avuto genio, elasticità, capacità di sopravvivenza, qualità tipiche dei bastardi, che i cani di razza son delicati e inadattabili. E mi piace che questa modernità a cui tanti si sono votati, queste magnifiche sorti che varranno solo per pochissimi, vengano contrastate da influssi orientali, com'è stato nel passato. L'immaginario salentino è fondato, sì, sull'ossario di Otranto, sui martiri della patria e sui martiri della fede. E torri d'avvistamento punteggiano da secoli tutte le coste, a difesa dei corsari barbareschi. Ma facce e vocaboli sono molto spesso, inequivocabilmente, arabi. Quando ero piccolo le donne in strada portavano un fazzoletto sul capo; e l'onore delle donne veniva difeso come nell'Islam. Mi viene da ridere a definirmi occidentale.

  

Veniamo finalmente ai sentimenti, all’empatia. Egoisti, razzisti, sibilano agli italiani arrabbiati donnacce privilegiate con due auto di scorta (che se ne avessero solo una penderebbero dai lampioni già da tempo). Purtroppo in sintonia con il Santo Padre – che lo Spirito vegli attentamente su di Lui – il quale ha trovato vergognoso (per chi, esattamente non si capisce, dato che non ha menzionato i nostri  Alleati, quelli che hanno messo a ferro e fuoco mezzo continente africano e provocato gli esodi) l’annegamento accidentale di immigranti illegali (anzi non illegali, che non è più reato). Più vergognoso – così è sembrato - di migliaia di cristiani sgozzati deliberatamente e dell'indifferenza dei mandanti.

 

Gli xenofili commentano con sprezzo gli striscioni con su scritto ‘Prima noi’. Non si capisce bene perché, dato che gli sprezzatori non vengono dalla Samaria: quasi tutti fino a poco tempo fa ragionavano in termini di materialismo storico, conflitti di classe e rapporti di forza. Confondono forse l’internazionalismo, che doveva affratellare i proletari, con la globalizzazione, che li deve schiacciare. Ma anche in pieno spirito di carità e di fratellanza esistono le priorità, le graduatorie, i meriti. Prima le donne e i bambini, per esempio. Prima chi è malato, per dire. Prima chi ha lavorato e pagato per il suo paese, magari. Prima quelli che i nonni sono schiattati sul Carso per difendere le frontiere. I posti nelle residenze per anziani sono contingentati, c’è la lista d’attesa. E una anziana marocchina, che si è ricongiunta con un parente fresco fresco di residenza, ci può scavalcare. O prendere la pensione sociale (di importo superiore a quella di tanti artigiani e commercianti che hanno lavorato e versato contributi) e ritornarsene a casa sua. Molti pensionati italiani (vi ricordate le guerre che hanno combattuto? la fame che hanno provato?) pagano ticket altissimi per ogni prestazione o farmaco. Gli stranieri mai. Bene, allora lasciatemi accodare ai fascio-leghisti: prima noi. o, almeno, insieme a noi. 

 

Le nostre anime belle sono adoratrici dell’erba del vicino. Vorrebbero tanto vivere in un paese normale, loro. Ma gli spagnoli sparano (guardate la cartina, che quello stretto si potrebbe attraversare a nuoto e i greci si blindano. Nell’albionica Malta i barconi non sono graditi e la Germania corre ai ripari .Tra Messico e California crepano a centinaia e Israele si autonomina stato etnico . E hanno mai visto, quelli che trovano disdicevole il Prima noi, bambini zingari mendicare nelle città svizzere? Se i traghettati sono profughi - e lo si accerti - non solo l’Europa, ma l’ONU deve farsi carico di costoro. Certo non il messo peggio dei paesi europei.

I cosmopolitisti cianciano sussiegosi dell'inevitabilità - storicamente provata - delle migrazioni e della inesistenza di etnie pure. Aggiungendo il carico da undici del come eravamo, e  dimostrando che sono emigrati più italiani di quanti stranieri siano arrivati, tipico caso in cui vengono confrontati numeri inconfrontabili che riguardano epoche diverse e circostanze opposte. Le nostre emigrazioni sono state favorite e contingentate a piacimento della nazioni ospiti - caratterizzate da spazi immensi - sempre nei momenti di espansione, mai nei momenti di crisi. I nostri nonni passavano settimane a Ellis Island per essere spesso rispediti a casa; hanno sempre dovuto lavorare e accettare tutte le regole e i valori del paese ospite. E quelle che molti amano chiamare migrazioni sono state operazioni aggressive, di conquista, mai incruente. 


L’aspra contrapposizione tra accoglienti e respingenti è dovuta principalmente ad equivoci. Gli uni parlano di migranti, termine suggestivo ma fuori luogo; gli altri alludono ai clandestini, termine più corretto ma riduttivo.  Gli uni ce l’hanno chi con i neri, chi con gli zingari, chi con il feroce Saladino. Gli altri, i cittadini del mondo, rifiutano ogni distinzione e aprono le braccia a cani e porci, incuranti dei problemi gravissimi di ordine sanitario, sociale, economico. Non sospettano mai di essere gli ingenui promotori, onesti e positivi, dei disegni delle multinazionali e di poteri non più occulti. E a furia di slogan ed eufemismi tutti dimenticano il buon senso.

Finché si continueranno a mettere sullo stesso piano badanti polacche e bande di rumeni, pescatori tunisini e accattoni professionisti, rifugiati politici e galeotti liberati dalle ‘primavere’, raccoglitori stagionali e irriducibili tribù di zingari sarà sempre dialogo tra sordi.

 

I samaritani accusano gli avversari di essere vittima degli stereotipi, ma sono loro le prime vittime, prigioniere di visioni edulcorate che rivengono dal loro peccato originale, il buon selvaggio dell’infame Rousseau. Lo si nota particolarmente nel caso degli zingari, che i succubi del politicamente corretto hanno imparato a denominare con ‘madornale insipienza’ rom o sinti. Oh, i nomadi, gorgheggiano i novelli Chatwin. Al mio paese c'è una colonia di (ex) zingari, in parte danarosa. Sono i nostri spacciatori ufficiali di carne equina. Nonostante la leggenda sulla loro decisione di fermarsi, collegata a una statua di Cristo ancora molto venerata, risalga a parecchio tempo fa e i loro cognomi suonino italianissimi non potrei dire che si sono integrati totalmente: si sposano tra loro e mantengono molte abitudini; ai funerali si presentano centinaia di altri zingari provenienti da tutta il meridione; ordinano i funerali più costosi e litigano ferocemente su chi debba pagare (poi, litigando litigando spariscono e alla fine non paga nessuno, ma questi sono dettagli folcloristici). Delle nuovissime generazioni non so dire; dubito che vogliano essere definiti rom (i più giovani avranno imparato il termine da annunciatrici politicamente corrette); ricordo che uno dei loro anziani si faceva chiamare l'egiziano (gitanos vuol dire egiziano, credo). Ma riguardo a quelli che vivono nei campi basta pensare ai film di Kusturica: veri inni alla gioia, alla follia degli zingari, una celebrazione quasi sacrale della loro musica (che il regista va suonando anche in proprio). Poetico, visionario, ma anche lucidissimo, ne Il tempo dei gitani Kusturica dipinge un popolo abituato a vendere i propri figli perché vengano storpiati per meglio mendicare, o, nel migliore dei casi, avviati alla professione del furto.

 

Dovrebbe risultare ovvio che gli zingari che affollano le periferie, anche se meno dediti al nomadismo che in passato (altrove non godono dei privilegi che qui li circondano) non hanno nessuna intenzione di integrarsi e non sono interessati ad alcun genere di lavoro. E non perché siano brutti, sporchi e cattivi. Sono orgogliosi – o semplicemente succubi - delle loro tradizioni, che non contemplano né radicamento né forme tradizionali di lavoro (le uniche attività lecite della loro storia sono quelle di calderai e commercianti di cavalli). Ci vorranno secoli perché si integrino. Gli sciocchi si attengono a un’equazione semplicistica: stanzialità uguale integrazione. Come si che si è fermato da un po’ di tempo nei pressi di una città intendesse per questo mandare i figli a scuola, cercarsi un lavoro di otto ore e lasciare che la figlia si intrattenga con un gagè invece di mendicare o leggere mani. Naturalmente i professionisti dell’accoglienza faranno di tutto per mandare quei bambini a scuola, che è come mandarli in galera e dare case vere alle famiglie (sempre galera). In nessun caso come quello degli zingari risalta la contraddizione tra rispetto per le altre culture e insopprimibile necessità di renderli simili a noi.

 

C’è una conclusione? Non saprei: temo, come quel tale, di non essere d’accordo neppure con me stesso. Amo l’incedere regale delle donne nere, le fattezze degli eritrei, il velo delle donne islamiche, i bambini nordafricani, ma non tollero le loro baracche nelle nostre sacre piazze. Vedo arroganza, furbizia e violenza in tanti di loro, ma come si fa a contare i cattivi e salvare i buoni? E’ un’impresa immane ma potrebbe, dovrebbe, essere affrontata seriamente, argomentando di volta in volta, situazione per situazione, etnia per etnia, gruppo sociale per gruppo sociale, accantonando gli slogan e gli eufemismi. Bisognerebbe reperire le risorse per ogni singolo costo dell'accoglienza, senza infierire sui soliti noti. E ogni esborso dovrebbe essere un investimento: per la beneficenza ci sono le onlus.

 

E' vero, gli immigrati perbene possono dimostrarsi una ricchezza. Ma chi ne farà dei cittadini, dato che non riusciamo a fare dei cittadini neanche dei nostri figli? La maggior parte di loro costituirà sempre una umma, per loro la vera legge non potrà che essere islamica (altro che ingerenze del Vaticano) e finirà, inevitabilmente, per prevalere, perché noi non siamo più una comunità. Il problema non è costituito tanto dagli immigrati quanto dalla nostra ignavia, vigliaccheria, inconsistenza. Maestre ignorantissime - o finte sceme - impediscono i festeggiamenti natalizi perchè offenderebbero i bambini islamici. Nulla di più falso, Gesù è un loro profeta e la Madonna è venerata. Ma se anche fosse vero? Siamo noi a doverci vergognare della nostra fede, delle nostre tradizioni? Finchè non ritroveremo l'orgoglio di patria non potremo integrare un bel nulla. Patria è quella parola che non si può dire, vituperata per decenni. Ma ci salveremo solo quando capiremo che proprio la demonizzazione dell'idea stessa di nazione seguita all'ultima guerra ha consentito che si facesse scempio del nostro paese (e non solo per le politiche migratorie, quella è la ciliegina). 

Nel frattempo preferisco non discutere con chi non riesce a tenere a freno gli istinti, buoni o cattivi che siano, considerato che quelli ‘buoni’ portano spesso al risultato peggiore. Per tutti.


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