La preghiera, da Picasso a Borges

Sembra facile

 

"Io non cerco. Trovo" sentenziò Picasso. Similmente Padre Pio palesò la sua diffidenza per chi cerca: nei libri si cerca Dio, nella preghiera lo si trova. Chiamava il suo rosario l’arma. Pregare, dunque. Beati gli ebrei, hanno a che fare solo con quattro consonanti: non manca solo il volto, mancano pure le vocali del nome. Si rivolgono al 

vuoto e possono concentrarsi sulle proprie parole. Anche i musulmani hanno poco da scegliere: un punto cardinale e l’immensità. La ricchezza del cattolicesimo, invece, proficua per la gente comune, rischia di precipitare nel nichilismo gli psichici, quelli che rimuginano troppo. Ci si deve soffermare già sulla scelta dell’interlocutore: Dio è Dio, certo, il Padre Nostro è l’unica, vera, prescritta preghiera, anche se nelle chiese Dio non c’è. Non è rintracciabile: troverete ogni genere d’icona ma raramente il Vecchio affacciato alle nuvole, quello dell’Annunciazione del Lotto (che non sta in una chiesa), quello della Cappella Sistina (che non è propriamente una chiesa). In ogni caso, quando preghiamo per qualcosa di preciso, non genericamente, allora cerchiamo intercessori, a cominciare dal Dio che si è fatto uomo. Vero che è della stessa sostanza di Dio ma intanto è un nostro simile, più facile discorrerci anche se hai difficoltà pure a decidere se chiamarlo Cristo o Gesù, che tutt’e due è ridondante in un colloquio intimo. C’è poi chi trova il corpo intero troppo vasto e si rivolge a un solo organo: il Sacro Cuore. Frattaglie, praticamente, più abbordabile di così! Giunti a questo punto però, risulta ancor più accessibile l’umanissima madre. La mamma è sempre la mamma ed è più sollecita, consolatoria, discreta. Ma è così vaga e lontana nel tempo, così levigata, una glassa, che si cerca un intercessore più concreto, più terreno, più recente. Un Padre Pio, appunto, così vicino, così presente. O un San Cosimo, gran medico, sempre nominato e invocato a scapito del fratello Damiano, al quale si rivolge invece deliberatamente un mio amico, ritenendolo meno assillato (quasi sfaccendati gli altri fratelli medici, martiri ma non santi, anche se la devota Oria è zeppa di Antimo, Leonzio ed Euprepio). E se sei salentino, come dimenticare Giuseppe da Copertino? Perché poi nessuno si rivolge mai allo Spirito, che conta quanto le altre due figure? Abbiamo passato dieci minuti a ripercorrere il nostro Pantheon, abbracciando dogmi, attraversando Concili, riassumendo secoli di dispute, e se pure siamo riusciti a scegliere l’interlocutore ancora non sappiamo quale atteggiamento adottare.

 

L’eccessiva umiltà non si confà a chi crede di avere una scintilla divina dentro di sé: se Dio, oltre a darci dignità e libertà, alberga in noi, è al nostro stesso cuore che dobbiamo rivolgere la preghiera, con quel minimo d’umiltà quotidiana che dovremmo adottare in qualsiasi abboccamento terreno. Sillabiamo dunque, incerti, oscillando tra il sussurro e l’articolazione solo mentale. E ci sorvegliamo. Imploriamo, e ci sembra richiesta debole, come di chi non ci crede fino in fondo. E’ forse più opportuno esigere, dare per scontata, per dovuta, la grazia. Assurdo: un diabolico peccato d’orgoglio, neanche il più paziente e ben disposto dei santi intercederebbe per un tale idiota! E poi, è il caso di ripercorrere situazioni, illustrare tragitti? Non è più semplice chiedere, con due, tre parole, quel che ci preme e basta? Ma sappiamo cosa ci preme davvero? E, soprattutto, cosa è bene per noi? Da tempo siamo stati messi in guardia dalle preghiere esaudite. Non sappiamo mai - come nel Candide ma senza sarcasmo - cosa è veramente buono per noi. Lo scopriamo sempre dopo, o non lo scopriamo mai. E per gli altri? Non bisognerebbe mai chiedere qualcosa per gli altri, potrebbe essere una trappola, come trattenere lo spirito dei defunti. “Il processo del tempo – rammentava Borges – è una trama di effetti e di cause, di modo che chiedere qualsiasi mercede, per infima che sia, è chiedere che si rompa un anello di quella trama, è chiedere che si sia già rotto. Nessuno merita un tale miracolo”. Cosa può esserci di tanto importante nei nostri casi che giustifichi questa rottura? La stessa permanenza in vita, di fronte all’universo, diventa una frivolezza, come scomodare Sant’Antonio per ritrovare un cacciavite. Ma Egli sa già cosa desideriamo – o cosa è bene per noi. Basterà rivolgere il pensiero a Lui. Ecco, Lui. Siamo già tornati a un roccioso monoteismo: ci rivolgiamo ora al Dio Sconosciuto, all’entità che tutti gli uomini riconoscono, principio creatore, realtà immanente, essenza stessa della natura, anima del mondo. Non c’è bisogno di recitare il Credo per rivolgersi a quest’entità spirituale, questo Spirito ecumenico, multietnico, filosofico. Ma così ci infiliamo in un vago spiritualismo. A quell’entità impersonale e priva di amore c’è poco da chiedere. Sarà quel che sarà. Che in fondo è la preghiera più giusta. Questa faccenda del chiedere mi sa d’interferenza, di petulanza, di presunzione. Sia fatta la tua volontà. Punto. Non c’è altra preghiera possibile.

 

Ma è una preghiera questa? Assomiglia troppo al fatalismo orientale, alla filosofia buddista, alla pura e semplice rassegnazione, manco cristiana ma di bruto, di schiavo, di bestia. Potremmo d’altro canto considerarla una condizione di accettazione, di volterriano distacco, di adattamento zen alla corrente del fiume: assecondare con giudizio fino a ottenere lo scopo. Questo è il giusto atteggiamento: essere allineati col Cielo, sintonizzarsi sull’universo. Ma il Rosario? Ci concentriamo sul senso, cerchiamo di interpretare, recitiamo con partecipazione da Actors studio, convinti che siano necessarie attenzione, partecipazione, intenzione. Stupidità di parolai: alla Divinità non interessano le parole ma gli stati d’animo. Per invaderci vuole il vuoto, il vuoto della ripetizione meccanica, delle giaculatorie, della perdita del sé, dell’annullamento. Invece ci preoccupiamo della sincerità, sorvegliamo le parole per essere certi di non incorrere in ipocrisia, riuscendo solo a essere dubbiosi, scettici, pieni di sé. Dovremo sapere bene che conta solo l’autoipnosi, che la parola deve perdere senso, meglio se perde i connotati stessi, come con le storpiature delle beghine ignoranti: quel latino maccheronico, insignificante o addirittura con stranianti sensi in similitaliano spesso ricordato da Carmelo Bene. E in ogni caso, una formula ripetuta per millenni acquista una potenza sua propria, come un luogo caricato dalle emozioni di migliaia di persone.

 

Tutte queste paturnie sono dovute alla solitudine. Non è opportuno pregare da soli, è sul gruppo che scende lo spirito: dove sono due o tre riuniti nel mio nome eccetera. Sul potere taumaturgico dei gruppi di preghiera hanno fatto ricerche pure negli ospedali americani. A messa, dunque, coi confratelli. Ma non è come te la ricordi. Una volta il sacerdote faceva il sacerdote, era la punta avanzata di uno schieramento che lo delegava a parlamentare con Dio. Ora a Dio volge le spalle per condurre (dal basso, che gli altari sono spesso seminascosti negli agghiaccianti casermoni di cemento) quest’assemblea di condominio, in un italiano scipito se non sciatto. Quando ancora non c’era stato il Concilio Federigo Tozzi, in una fase della sua conversione, entrava in chiesa con una ‘sottilissima ironia allegra’ e si rimproverava di non compiere le pratiche rituali di tutti i credenti, cercando di spiegarsi perché le comuni preghiere gli sembrassero “quasi insipide, ripugnanti”. Che direbbe ora, ascoltando canzoncine bamboleggianti con accompagnamento di chitarra? Dio mio, la chitarrina. E l’organo? E i canti in latino? Le suore mi avevano insegnato che all’elevazione si abbassa lo sguardo: non si fissa il Signore nella sua splendente, terrificante nudità. Ora si sbircia distrattamente quell’ostia prima di andare a prenderla tra le manacce sconsacrate. Un gravissimo sacrilegio, sapevo io: ora ogni credente è un sacerdote. Todos caballeros. Poi ti invitano a scambiarti un segno di pace. Un abbraccio? Un triplo bacio all’ortodossa o addirittura sulla bocca, alla russa? No, una stretta di mano, una borghesissima stretta di mano. Piacere, Rossi. Congratulazioni signora. Oh, che piacere rivederla. Questa sarebbe liturgia? Naturale che tu preferisca pregare nel cesso di casa tua che è più accogliente e il water è creato da un designer, erede dei grandi del Rinascimento. Almeno hai una testimonianza di bellezza, quella bellezza che, dice Benedetto XVI, è rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo.

 

L'unica preghiera  spontanea, per quel che mi riguarda, è quella di ringraziamento: nulla di articolato, un grazie, neppure pensato a volte, giusto il sentimento, di fronte alla colorazione di quei cirri lassù, a una folata di vento, alla sinfonia di verdi (nel senso di colori) che ti trovi davanti di colpo, al regalo che è la donna della tua vita (e te ne accorgi sempre troppo di rado). Grazie per il mattino, per qualsiasi mattino. Fanciullaggini? Sentimentalismo? Forse, ma quando lo mormori stai da dio (con Dio). 

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Commenti: 3
  • #1

    Walter (giovedì, 20 giugno 2013 20:56)

    Il Sia fatta la tua volontà è la sola preghiera e non sa di fatalismo ma di coscienza dei propri limiti umani

  • #2

    Elio Paoloni (venerdì, 21 giugno 2013 11:01)

    Grazie

  • #3

    Livio Romano (domenica, 23 giugno 2013 17:38)

    Nessuno riesce a levarmi dalla testa che il buddismo sia una disciplina riassumibile nel "che i fatti miei e dei miei vicini mi vengano bene". Invece, hai perfettamente ragione, lo penso sempre anch'io, la più grande testimonianza di fede, il più strepitoso atto d'umiltà sta nel Padre Nostro. Sia fatta la tua volontà. Non "sia fatto quel che ti chiedo io", bensì la TUA. Quella che hai già in testa. Ebbene, io la accetterò, e Ti chiedo di starmi vicino. Non so qual è, non la vedo ancora scritta, ma la accoglierò. Meraviglioso.