Ironia, risorsa o condanna?

Sul sito www.eliopaoloni.it ci sono link non funzionanti. Recupero qui i pezzi, anche se oggi i miei orientamenti sono slittati (ad esempio il mio giudizio sull'ironia letteraria è più critico) 

 

   Filippo La Porta denunciò sul Foglio il dispotismo dell’ironia. In un elogio di Chaim Potok, sul Domenicale, Giuseppe Sanfilippo metteva subito in chiaro che lo scrittore era ebreo ma  non ironico: "No, lui non conosce l'ironia, non ha tempo da perdere con il gioco di Isaac B. Singer o di Woody Allen o di tutti i Roth possibili, Philip o Henry che siano". E in 

una replica a Lello Voce sulla poesia di Mario Benedetti, Giuseppe Genna decise di fare i conti con questo retaggio dell'Avanguardia, mandando definitivamente  a sbarcare il suo lunario nei bidoni della spazzatura questo gesto di fascismo retorico: "E' finta la leggenda metropolitana che l'ironico è il distaccato: l'ironico è uno che non sa cosa sia la naturalezza del distacco. C'è uno sforzo psichico nell'ironia: ti barrichi dietro i bastioni dell'ironia e al tempo stesso sei nel cuore del nemico per farlo scoppiare… L'ironia è la maschera di quella cavolata di etichetta che è il postmoderno. Il comico è altra cosa. Il comico spalanca il riso e l'abisso insieme… Il sopracciglio di Piero Angela si solleva ironicamente per negazione dei limiti della conoscenza di cui dispone. L'ignorante potrà anche non essere ironico, ma l'ignorante intelligente, molto probabilmente, sarà capace di una trascinante ironia… A me, infatti, tutta la poesia di Sanguineti fa schifo: non mi sembra nemmeno poesia".

 

   "Prendere tutto seriamente, anche a rischio di passare per noiosi, è diventata la vera necessità dei nostri tempi": questa è l'esortazione. Il rifiuto non vale solo per la scrittura, sembra investire il quotidiano: neanche una battuta sull’Inter al Caffè, insomma. Non ho compreso però se è solo lo scrittore - o il critico - a dover conformare la vita privata a questo habitus di serietà e impegno, o se pure il comune civile deve costringersi al colletto rigido. Si tratta di un’imposizione etica, di vita, o di una scelta estetica, riservata alle opere? O per gli spregiatori dell'ironia non c'è differenza tra le due sfere?

 

   Restringendo il campo alla letteratura, sorge spontanea una domanda: questa sprezzatura ha carattere contingente? Si tratta di un riflusso periodico, di una ripulsa da saturazione? Si auspica cioè una reazione, qui, oggi, nel determinato momento storico (e nel preciso frangente letterario - o editoriale) a un eccesso dell'uso? Si ritiene, in altre parole, che avendo il postmoderno esaurito la sua funzione, si imponga una "restaurazione" etico-letteraria?

   Oppure si condanna l'ironia in sé? Ovvero, considerando il postmoderno una semplice variante del moderno (possibilmente il capitolo finale), si condanna tutto il moderno (facendolo risalire, che so, a Sterne?) vale a dire tutto ciò che abbiamo salutato come antidoto all’oscurantismo, alle Fedi, agli assolutismi? Ciò che insinua il dubbio, induce al distacco? Che favorisce la comprensione, la tolleranza? 

   Genna dice che il distacco dell'ironia è una bufala, che c'è sforzo psichico. Sarà, ma che s'intende per naturalezza? Fermarsi al primo livello di comprensione? Aderire alle proprie emozioni?         

 

   E se dobbiamo rifiutare l'ironia in tutte le sue manifestazioni, anche quelle già edite, ci si può fermare al moderno? Dovremmo condannare anche la classicità, perché della classicità fa parte Aristofane. E dobbiamo cassare l'Ariosto? E che dire del Don Chisciotte? E soprattutto, anche se può sembrare fuori luogo, che ne facciamo di Leopardi? Al sopracciglio dei pieroangela dell’epoca Leopardi opponeva un sopracciglio contro le magnifiche sorti. E’ ironia quella che usa. Dolente, cosmica, venata di malinconia, ma pur sempre ironia. Ironia sulla condizione umana. Sulla inevitabile “ingenuità” degli individui e delle folle. Ironia su se stesso, in primo luogo, avendo, come tutti, alimentato l’autoinganno. Autoinganno che nell’ultima fase riconosce indispensabile, decidendo che è d’uopo sospenderla, l’ironia: troppo disinganno è pernicioso. Ma non è mai riuscito veramente a disfarsene: l’ironia non è nello sguardo, è nelle cose: nella Natura che si fa beffe di noi. Essere seri vuol dire rifiutare questa verità, significa soprattutto prendersi sul serio come individui - e come umanità - essere certi di avere in mano il proprio destino, pronti a prendere in mano anche l'altrui. Un contadinotto virginiano, Jedediah Purdy, scrisse un libro di grande risonanza per spiegare che la società americana è stata rovinata da quell’atteggiamento che chiamiamo ironiaE forse è giusto: a governare con le battute si prova, per ora, solo in Italia. Anche se il più bel papa ch'io ricordi, Luciani, era prodigo d'ironia (bonaria, affettuosa, ecumenica, ma pur sempre ironia). E se la persona per definizione più "sacra" e "ispirata" del mondo abbraccia l'ironia, quale scrittore può permettersi di rifiutarla in nome del sacro fuoco dell'ispirazione?

 

   Qualcuno salva il comico: “il comico è un'altra cosa”. Ma altri deplorano anche quello: non si contarono gli articoli contro una sciagurata scelta del Salone di Torino (c'è ben poco da ridere, si lamentava Giulio Ferroni). Alcuni fondamentalisti della serietà sembrano rifuggire non solo dall'ironia, ma anche da tutto ciò che comporta il riso e il sorriso, come il monaco rievocato nel Nome della rosa. D'altro canto le stesse persone, a volte, tengono per eroi i campioni della satira: “la satira è un'altra cosa”. Sarà, ma il meccanismo dell'abbassare, dello sbugiardare, del dissacrare, non mi sembra così diverso.

   Va detto che Alessandro Bergonzoni, un comico (così, almeno, veniva considerato nelle sue prime apparizioni al costanzoshow) ormai votato a una sorta di teatro dell'assurdo, al delirio verbale (tra il Bartezzaghi e Palazzeschi), si è tirato fuori dal cabaret, dalla schiera di coloro che vogliono far ridere di questo o di quell'altro mostro: "Io non voglio (far) ridere di Borghezio". Ma si può dire che Bergonzoni non usi l'ironia? Certo, tende prevalentemente al soprassalto dell'ascoltatore, allo squarcio del senso comune, alla moltiplicazione dei significati - o alla destituzione di senso - ma, insomma, non è ironico anche il suo procedimento? Non prende in giro i modi di dire, non deride l'inerzia dell'aggettivazione? Non sorridiamo anche, con lui?

 

   Tra le cose più geniali degli anni scorsi c'erano i titoli del Manifesto (non solo i titoli, per la verità: quando c'era ancora quel bellissimo mensile che raccoglieva il meglio della stampa periodica, il Manifesto vinceva quasi ogni volta la palma della migliore Prima pagina, cioè l'insieme di immagine, titolo, catenaccio ecc.). Erano titoli permeati da un'ironia non necessariamente sottile. Io, che non condividevo quasi mai il messaggio, ne andavo pazzo, per amore della classe (nel senso di stoffa). Ma fece anche dell'ironia criminale, sanguinosa, vomitevole, sugli ostaggi italiani in Iraq (li rivogliamo davvero? hanno i deltoidi invece degli occhialini tondi, puah). Mi schifa pure definirla ironia ma pochi si stracciarono le vesti. Se un critico però usa l'ironia (magari non sempre, magari qualche volta, magari una volta sola) apriti cielo: sensale, traditore, i libri sono una cosa seria, specialmente i miei.

 

   Una volta, in radio, Carlo Lucarelli espresse ammirazione per coloro che aveva eletto suoi eroi: persone comuni che non rinunciano mai a una battuta, che per amore della battuta perdono amicizie, distruggono il matrimonio, vedono sfumare carriere. Anch'io ho sempre amato l'ironia, invidiando degli inglesi la mostruosa capacità di esercitarla senza che l'interlocutore riesca mai a decidere se si stia o no esercitandola.

   Poi, però, ho avuto l’illuminazione Greggio: le poche volte che capitavo su Striscia cambiavo immediatamente canale. Niente di più normale: ce ne sono cento di facce che ti fanno cambiare immediatamente canale. Ma non era solo noia, disgusto, c’era qualcosa di più, qualcosa che mi irritava profondamente, che mi offendeva. E di fronte ai commenti di qualche amico che lo apprezzava ho cominciato a chiedermi cosa ci trovavo di tanto deplorevole, in Greggio da non tollerare neanche che altri lo trovassero divertente. Cosa? L’ironia, ovvio, ma questo non risolveva nulla: anche altri, nello spettacolo, fanno dell’ironia e non mi è mai dispiaciuta. Greggio, dunque, sfotteva tutti dall’alto di uno scranno, derideva i difetti fisici altrui, criticava le azioni prese di mira come se lui non potesse concepirle. Il personaggio dava questa impressione di arroganza, di superiorità indiscussa, l’aria del furbo, di quello a cui non la si fa. Greggio si chiamava fuori. Era questo il punto: Greggio faceva ironia "pura". Era questo che non andava: l’ironia non era contaminata dall’autoironia. Non c’era traccia di quella componente che in misura maggiore o minore deve essere associata all’ironia, che rende l’ironia non solo accettabile in società ma sopraffino ingrediente narrativo. Del resto eiron starebbe a definire, così leggo: "un uomo che fa apparire sé stesso meno importante di quanto sia". L'understatement, insomma.

 

   Ma Tiziano Scarpa aborre anche l'autoironia: "il bon ton sociale è un agenzia ideologica oppressiva che mira ad annientare l'individuo". Già, la modestia del classico che si rivolgeva a soli ventiquattro lettori è fuori moda. Ma ogni convenzione sociale è una diminuzione dell'individuo. Se però si continua a pretendere che l'individuo dica buongiorno in ascensore e non blocchi la tua auto parcheggiando, non vedo perché lo status di artista (certificato da chi?) debba consentire arroganza e autoreferenzialità. Io non sarei pregiudizialmente contro l'autoreferenzialità e l'assalto al critico: vi sono precedenti illustri. Tuttavia non è tra le mie registrazioni preferite quella che contempla l'immenso Bene dare del "faccia di saponetta" al critico di turno.

   Scarpa, del resto, non è immune dal virus dell'ironia. Ce n'era parecchia inCos'è questo fracasso? Forse sbaglio, probabilmente si potrà dimostrare che non di ironia si tratta bensì di umorismo, di parodia, di sarcasmo, di comicità, di ridicolo e via sorridendo. Così come si potrebbe trovare una definizione diversa dall’ironia per “La fattoria degli animali”. E, plausibilmente, la vena narrativa di Scarpa è il grottesco, che in fondo è uno degli aspetti del comico e viene anche definito "deformazione ironica". Probabilmente, però, nel suo cammino verso la purezza, Scarpa rinnega i suoi trascorsi.

 

   Ma vediamo (da Postkarten) una delle poesie schifate da Genna:

 

brucia e brucia! come ha detto quel tale (è un aneddoto storicamente garantito:

e, per il mio gusto, di prima scelta), quando è ritornato nella sua villa, in Serbia,

nel '42 (e i partigiani, che avevano fatto la cucina, lì dentro, di fresco,

gli avevano acceso il fuoco, in biblioteca, anche per scaldarsi, naturalmente,

e lo avevano alimentato con i libri):

                                                          brucia e brucia! come ha detto quel tale,

dunque, dando un calcio a un volume superstite di una pregiata edizione delle Oeuvrescomplètes di Voltaire, scaraventandolo nel pieno delle fiamme:

                                                                                                      brucia e brucia!

ha detto, perché tutto è incominciato con te: (e tu che leggi questi versi, adesso,

vedi un po' tu, che sai, se li degni, per caso, di un fiammifero):

 

   Ha ragione Genna: c’è un sacco di ironia in questi versi. Ma di chi è l’ironia, qui? E su chi o cosa viene esercitata?

   L’ironia la propone “quel tale”. Ironizza sulla situazione, sull’eterogenesi dei fini e su Voltaire (ironizza sull’ironia di Voltaire: chi di ironia ferisce…). Ironizza anche Sanguineti, certo, come responsabile dell'impostazione dei versi, inizialmente, e in prima persona alla fine. Ma su chi? Non su quel tale (con lui simpatizza: è un intellettuale sbigottito, un compagno di pena) e neppure sull’Illuminista. Ironizza su se stesso, sui suoi stessi versi. Ma questo non significa necessariamente abbassarli: sembrerebbe anzi che si riconosca loro la pericolosità, quindi l’importanza, di una vera e propria filosofia. Sembrerebbe, appunto. Questo è il merito dell’ironia, la qualità che la rende imprescindibile nella scrittura: il modo migliore di rendere la complessità del reale. Nulla costringe a riflettere come l’ironia.

 

   L’ironia non è (non solo) farsi beffe del prossimo ma privarsi, e privare, delle certezze svelando il mondo come ambiguità (Milan Kundera ha scritto che "ogni romanzo degno di questo nome, per limpido che sia, è sufficientemente difficile a causa della sua consustanziale ironia"). L’ironia non è necessariamente la vigliaccheria di chi non vuole prendere posizione: spesso è il coraggio di chi trova che sposare una versione è limitante e, in fondo, comodo. Spesso è l’onestà di chi trova osceno atteggiarsi a vate e preferisce palesare la debolezza, il dubbio e (perché no?) il sospetto. Il dubbio è la principale virtù di chi pensa. Ci sono persone che non devono dubitare: ho conosciuto chirurghi che pensavano molto (avevano più pubblicazioni di tutti gli altri) e dubitavano altrettanto: non si contano i danni, e i morti. Non ho conosciuto, per fortuna, capitani che dubitavano. Ma un imbrattacarte deve dubitare. Si può dubitare in abiti seri, ovvio, ma questa opzione non è necessariamente più valida, più illuminante, più penetrante. Non è per definizione più morale o più efficace.

 

   Ci sono scrittori naturalmente portati all’ironia, alla forma scherzosa. Perché dovrebbero snaturarsi e accettare il dettato del cipiglio, come in altre occasioni ci si è dovuti adattare all'ironia a ogni costo, al realismo (magico o socialista che fosse) oppure all’abbandono del plot? Vi sono poi dei talenti che possono decidere volta per volta se per raccontare un tema sia opportuno un approccio umoristico, vuoi per aderirvi, vuoi per cercare l'effetto di contrasto.

   E qui incrociamo la questione Mito. Se si è d’accordo con quanti lamentano che la letteratura italiana è perdente rispetto a quella straniera – in particolare americana – perché incapace di mitizzare (elevare) e buona solo ad abbassare, a distruggere, a demistificare, allora bisognerebbe accodarsi a questo ostracismo dell’ironia.

   Ma Pian della Tortilla e Pulp Fiction non creano mito demistificando, smontando, citando, ironizzando?

 

    Su Nazione indiana col titolo 'Siamo seri'

 

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Commenti: 6
  • #1

    livio romano (lunedì, 27 maggio 2013 22:23)

    Grandissimo articolo. Ci rifletto.

  • #2

    Elio Paoloni (martedì, 28 maggio 2013 08:48)

    Grazie.

  • #3

    livio romano (mercoledì, 29 maggio 2013 20:47)

    Io sono uno che non tocca penna se non per ironizzare su storie, personaggi, aneddoti, questioni serie e meno serie. Con Jonathan Franzen dico: “È rarissima la buona narrativa che non sia divertente e ironica, ed è ancora più rara l’ottima narrativa che non sia molto divertente e molto ironica”. Come dice Servillo in questo secondo me grandissimo ultimo film di Sorrentino, rivolgendosi alla "scrittrice di impegno civile" (vado a memoria): smettila con questa fuffa falsissima, cosa rischi tu davvero, di quale impegno parli, perché non fai come noi che preferiamo parlottare del nulla, che non ci prendiamo così sul serio?
    p.s.: in "Cos'è questo fracasso?" io scorsi solo qua e là un po' di velenoso sarcasmo, e per il resto solo cipiglio egotico.

  • #4

    Elio Paoloni (giovedì, 30 maggio 2013 09:46)

    Quando ci si trova in difficoltà sulle questioni astratte non si può non ricorrere all’esempio, ai grandi modelli. Partiamo dal più grande, in assoluto: Proust. Ironia a vagonate, ma è ironia delle cose, ironia della vita e, non smetterò di sottolineare, autoironia (conta poco se sia dell’autore o del personaggio che dice Io). Ma non c’è solo quella, anzi.
    Lo stesso vale per Kundera: c’è poco da ridere delle beffe del destino che tratteggia così bene: si risolvono spesso tragicamente, magari in un campo di rieducazione.
    In Dostoevskij e Tolstoi non mi sembra. In Gogol e Cechov sì. In Balzac forse sì ma non è una componente fondamentale. In de Laclos neanche. In Conrad no e neanche in Henry James. Non ce n’è in Hemingway e in Kerouac.
    Manzoni trabocca di ironia, per quanto affettuosa e partecipe. In Dante non ce n'è ombra e neppure in D'arrigo. Neppure in Pasolini e in Sciascia (anche se bisogna tenere conto di Candido in Sicilia). In Carmelo Bene non saprei dire. Sembra ce ne sia tanta ma è così dolente, folle, tragica, sublime, che non so più se è ironia.
    Di proposito non mi addentro nel recente passato e nel presente. Mi sembra di poter concludere, grossolanamente, che l'ironia è una grande componente della letteratura ma che un libro davvero valido non può essere solo ironico.

  • #5

    Livio (giovedì, 30 maggio 2013 11:30)

    Cavolo, come no in Dostoevskij e Tolstoi! In Flaubert, vagonate, come dici tu. Ho pensato anch'io a Henry James ed Hemingway. No, non pervenuta. E neppure in quegli scrittori del sud tipo Faulkner o Mc Carty che a me non piacciono proprio. In Pasolini, come ti ho detto una volta, nel suo cinema almeno: c'è comicità INVOLONTARIA che è comunque qualcosa. Neppure su Dante son d'accordo. Il suo scoppiettante multilinguismo mette alla berlina spesso con ferocia, e spesso con scene esilaranti, tanti di quei soggettoni che non puoi dire che il Grande Esule non sapesse rider della commedia umana. Ad ogni buon conto, sì: ha ragione La Porta. Non basta salire su un albero e osservare con distacco e magari in maniera deforme. E' uno dei modi possibili. Ma se penso, chessò, a Carver, be' mi dico evviva anche la letteratura che restituisce lampi di realtà senza apparentemente prender alcuna posizione.

  • #6

    Elio Paoloni (giovedì, 30 maggio 2013 11:51)

    Ma quella di Dante non è ironia, non c'è niente di sottile, di frivolo, di umoristico. Lo chiamerei sarcasmo. Vero che in Dosto certi personaggi sono ridicoli, specie quelli seriosi, pieni di sé, ma l'approccio non è mai quello che domina questo secolo: adesso mi siedo e dipingo tutto con la mia algida ironia. E' proprio una questione di postura, di intenti, non del tratto ironico che certo non può mai mancare.