Spiritualità in cucina

Ricette di etica

 

Il gusto non è soltanto una parte e un indice di moralità: è la sola moralità                                                                                                              John Ruskin

 

E’ un’idea forte, sorprendente, ma non del tutto inconsueta: nel film Il pranzo di Babette, tratto dal racconto di Karen Blixen, il cibo è strumento di elevazione (all'opposto de La grande abbuffata di Marco Ferreri, che vede quattro amici rinchiudersi per mangiare fino a morirne, in una atmosfera funerea nella quale il cibo è 

 

degradazione, regressione, strumento di morte): Babette decide di utilizzare una vincita alla lotteria che le avrebbe permesso di ricominciare una vita in patria per ricompensare la comunità che l'ha accolta anni prima, allestendo un pranzo favoloso. In un mondo di moralismi, dove ogni piacere veniva represso Babette introduce la passione, le emozioni e il gusto per il bello, attraverso un pranzo che cambia il destino delle cose, che rende migliori persone che avevano una visione falsata della rettitudine.

 

Per Livio Giorgioni, autore de “La simbologia religiosa del cibo nel cinema d’autore”, Babette è addirittura un’immagine cristologica: quel pranzo, così succulento, raffinato, quindi concreto, sarebbe anche allusione a una realtà “altra”, ad un mistero più grande. Non può esserci vera rettitudine, insomma, senza l'amore per la bellezza, per l'apprezzamento dei doni del cielo e della cultura. L'alternativa è l'ottusità, l'aridità. Nel finale del racconto viene detto, appunto: a quel pranzo rettitudine e felicità si erano baciate.

 

C’è un film che unisce la componente mortuaria della Grande abbuffata e quella spirituale del Pranzo di Babette: si tratta de La ricotta di Pasolini, che non è un vero film ma uno degli episodi di RoGoPag, nel quale la miserabile comparsa che fa la parte di uno dei ladroni crocifissi con Gesù muore per indigestione. Ma non si tratta - come nella Grande abbuffata - di un suicidio, di un adesione estrema al consumismo, o della sua negazione: qui si tratta di pura fame. Il poveraccio deve continuamente rinviare il suo pasto  (come avrebbero fatto poi - in tutt’altre circostanze - i personaggi di Bunuel nel Fascino discreto della borghesia). Alla fine si ingozza in pochi secondi con un enorme forma di ricotta. Però la sua morte avviene in croce, di fianco a Cristo, sia pure un Cristo attore. E subito dopo Pasolini girerà il Vangelo secondo Matteo.

 

Storie mitiche, ma mitico è anche il tipico, diceva Thomas Mann. E scrivendo di un ristorante pugliese che fa cucina tipica, Camillo Langone, che passa per giornalista gastronomico ma è una via di mezzo tra un arbiter elegantiarum e un fustigatore di costumi alla Guido Ceronetti, riporta un passo di Marc Augé, dal libro Rovine e macerie: "Ci accade di contemplare dei paesaggi e di ricavarne una sensazione di felicità tanto vaga quanto intensa; più quei paesaggi sono naturali (meno devono all'intervento umano) più la coscienza che noi ne abbiamo è quella di una permanenza, di una lunghissima durata che ci fa misurare per contrasto il carattere effimero dei destini individuali". Ecco, continua Langone, ci ha tolto le parole di bocca, i capunti e le orecchiette sono le forme primigenie di un paesaggio gastronomico più naturale che culturale e quindi offrono qualcosa di impagabile, il "per sempre", parole che anche gli sposi fanno fatica a pronunciare. Mentre il "tataki di cervo su tortino di risi misti e salsa agrodolce d'arancia e cannella" (nella lista di un famoso ristorante altoatesino) mette agitazione, sembra che a fianco del nome del piatto ci sia scritto "ora o mai più" con tanto di scadenza. E fra sei mesi via, nella discarica dei piatti obsoleti.           

 

Ma torniamo al cinema con Big Night, meraviglioso film dei fratelli Tucci che narra le vicende di due fratelli abruzzesi emigrati in America, che, negli anni 50, gestiscono un ristorante che va in rovina. E ci va per la coscienziosità, anzi l’incorruttibilità, di uno dei due fratelli, che non tollera di imbastardire le sue pietanze per venire incontro alle pretese dei barbari, quelli che vogliono il kethcup sugli spaghetti. Il fratello che sta in sala, più accomodante, è costretto a trattenerlo fisicamente perché lui con certi clienti vorrebbe venirci alle mani. Non è un filosofo, il cuoco di Big Night, non saprebbe citare Ruskin. Ma sa, intimamente, profondamente, che alcune cose vanno preparate in un certo modo, e solo in quello. Unisce amorevolezza  e rigore, sa che la preparazione dei cibi ha a che vedere con la rettitudine, con la moralità, appunto. Non a caso il locale di fronte, che va a gonfie vele, è di proprietà di un mascalzone.

 

Di un alto gesto etico narra anche un film di Roland Joffé, Vatel, da ricollegare a un passo di Giovanni Ballarini: “la sala da pranzo è un teatro, di cui la cucina è il retroscena e la tavola la scena”. Qui l’idea di teatro va intesa metaforicamente ma vi è stato un periodo in cui l'allestimento teatrale era parte integrante del pasto, anzi, forse, l'aspetto più importante. Nel film, tratto da alcune lettere di Madame de Sevigné datate 1671, questo aspetto viene illustrato splendidamente: il Principe di Condé, che ha bisogno di guadagnarsi il favore di Luigi XIV, si mette nelle mani di Vatel (Gerard Depardieu) che è al suo servizio, assegnandoli il difficile compito di ricevere la Corte: tre giorni di festeggiamenti.

Definire il compito di Vatel è davvero complicato. Vatel non è un cuoco, anche se cura personalmente gli approvvigionamenti, segue tutti le operazioni degli addetti alla cucina e mette mano personalmente ai cibi, anzi il trionfo dei festeggiamenti dovrebbe essere assicurato dalla crema da lui inventata per l’occasione, la famosa crema Chantilly.

Potremmo definirlo un maestro di cerimonie, ma saremmo ancora fuori strada, perché non si tratta semplicemente di un maestro di sala, un custode della regolarità del servizio o un esperto di buone maniere. In realtà Vatel sovrintende (e pone mano) a una quantità incredibile di lavori, dai fuochi artificiali alle sculture di ghiaccio, dalle coreografie alle acrobazie. Sceglie i brani musicali, i fondali, la sistemazione dei giardini, l’illuminazione (addirittura crea per l’occasione delle lampade). All’epoca non si trattava semplicemente di scegliere e accostare spettacoli e coreografie già predisposte: si trattava di crearle, così come si inventavano i pasticcini. Vatel è quindi produttore, regista, scenografo, sarto, designer, carpentiere. Alla fine si ucciderà perché il pesce che attendeva non era stato consegnato. Ha fallito, si sente responsabile anche per il mare in tempesta. Avrebbe dovuto prevedere le bufere, o quietarle, come un dio.

 

 

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Commenti: 1
  • #1

    Roberto Martucci (domenica, 27 gennaio 2013 17:59)

    Mi hai fatto rivivere scene di films che ho amato. Grazie