Un santo senza libri

2010-11-26 12:45:18

 

o con troppi

 

in versione breve sul Corriere della Sera - Puglia, 9 Novembre 2010

 

L'apologetica deve mescolare scetticismo e poesia    (Nicolàs Gòmez Dàvila)

 

Certi libri non si recensiscono, al massimo si consigliano alle persone care. Non hanno valore letterario, sono testimonianza, agiografia, edificazione. La qualità dell’editore (Rizzoli) sembrava accreditare spessore o

 

almeno novità confidenziali a Il mio amico Padre Pio del sangiovannese Giovanni Siena ma per trovare una testimonianza intima bisogna arrivare a pagina 123 e in seguito, quando ci racconta un episodio che solo lui conosce, una confessione invertita con Padre Pio che si apre e gli parla per un’ora, Siena riporta solo generiche parole sulle preoccupazioni del Padre per il degenerare della situazione italiana. Ricco e toccante solo il ricordo della Messa antelucana, un divino sacrificio della durata di due ore, cruento, suggestivo, poetico, mistico, con elevazioni dell’Ostia di venti minuti, che aveva toccato persino lo scettico Guido Piovene. Il resto, già noto, è raccontato impersonalmente.

Niente di nuovo: i libri su Padre Pio sono fatti male. Gli autori, persone pie, hanno la tranquillità – e l’insipienza – del fedele. Non hanno stoffa di teologi, né rigore di storici né perspicacia di scrittori. Molti di questi libri sono scritti da onestuomini che si siedono con dieci libri sull’argomento attorno e piluccando qua e là aggiungono un nuovo inutile titolo alla sterminata biobliografia su Padre Pio. Lo sapeva anche Lui, del resto: pur rammentando - a chi gli scriveva che i “buoni libri” sono noiosi e scritti male - che “gli altri sono pur sempre peggiori” ammetteva che lo scrivente “non aveva tutti i torti”. Del resto i grandi non hanno avuto quasi mai testimoni all’altezza: Leopardi ha avuto per memorialista Ranieri, amico generoso quanto ottuso, incapace di comprendere la grandezza del poeta e assolutamente incapace di restituirci i suoi percorsi intellettuali, i moti dell’animo: solo i moti dell’intestino ci ha resocontato. 

Ci sono biografie di buon livello, come il ristampatissimo Vita di Padre Pio di Rino Cammilleri. Ben sapendo che “quando si legge di agiografia non si può trattenere un senso di noia” l’autore di si è sforzato di evitarne le trappole, servendosi di una ironia guareschiana e guardandosi bene dall’edulcorare i motti famosi, spesso dialettali o addirittura sboccati (‘pezzo di minchione’ al giornalista Giovanni Gigliozzi, a cui aveva guarito il suocero perché “Mica l’ho guarito io ma Quello lassù). “Cose di santi” chiosa quando è costretto a raccontare cose troppo edificanti o inverosimili. Ma Cammilleri non ha mai visto Padre Pio, non ha mai assistito a una sua messa, a quella Messa che, a detta di un prelato, “insegnava la Messa”, durante la quale il santo si rivelava “intermediario tra gli uomini e Dio: la punta estrema della creatura finita di fronte all’infinito”. 

Né Cammilleri lo ha mai guardato in quegli occhi che costringevano chiunque ad abbassare lo sguardo. Un amico generale mi confidò: “Io non ho paura di nulla, ti dico di nulla, se mi puntano una pistola alla testa mi faccio una risata. Fa parte di me, è costitutivo del mio carattere, o forse è una deformazione professionale, fatto sta che quando Lui mi ha guardato ho provato il terrore, per la prima volta in vita mia”. Questo è il gran titolo di merito del nostro P.P.: aver ricordato al mondo la terribilità del Sacro, aver riportato in Chiesa il timore di Dio, rimesso al mondo la Colpa, e anche il senso di colpa, che il Moderno - leggi strizzacervelli e damine delle riviste femminili - tiene tanto in dispetto e tenta continuamente di estirpare. Benché migliaia di immagini e statue si sforzino di riportarlo al modello santino infilzato con boccuccia a culo di gallina, occhio vacuo rivoltato in su come la macchietta love and peace di Verdone, Francesco Forgione era spesso burbero e terrorizzava i tiepidi e gli ipocriti. Impossibile soffocare in un santino uno che scacciava in malo modo i baciapile, “se volete conservarvi buoni non frequentate le sacrestie”, che raccontava barzellette (anche se erano un condensato di teologia morale), che scorrazzava per il mondo senza muoversi dalla sua cella, dove soffriva come un cane, giorno dopo giorno, con ricorrenti febbri da quarantotto gradi (una volta fino a cinquantadue) misurati col termometro da bagno che i normali scoppiavano, un Giobbe del Nuovo Corso. Non c’erano per lui escursioni su colline fiorite: non era un Poverello, che già è aggettivo aggraziato, ma un poveraccio sepolto vivo dalla gerarchia che ingaggiava combattimenti alla Fight Club col Diavolo e piombava in estasi interminabili come i più appartati e inetti tra i mistici ma nel frattempo confessava migliaia di persone, si dava da fare coi muratori e coi medici e spargeva profumi in giro per il pianeta. 

Non sempre inoltre Cammilleri sfugge alla vaghezza che circonda decine di aneddoti: tanti miracoli capitati a una madre, a quel bambino, in una qualche occasione. C’è un episodio, quasi certamente falso, che attraversa decine di questi libri: una madre che giunge in treno a San Giovanni Rotondo con il figlio, infilato in valigia perché morto durante il tragitto, e si sente dire dal Padre “ma no, sta dormendo”: una Resurrezione in piena regola riguardo alla quale non c’è mai un nome, una città di provenienza, una data. 

Molto migliori, tecnicamente, i libri contro. Sono libri affilati, ricchi di dati e date anche se gli autori sono spesso più ottusi dei devoti, incapaci di sollevare lo sguardo dalle carte “giudiziarie”: epigoni dei CSI, patologi improvvisati, cantori dell’acido fenico, ricorrono grossolanamente ad appellativi sprezzanti per definire un’entità più grande di qualsiasi cosa riescano a contenere i loro orizzonti. Eppure rendono più ficcanti i loro testi con il ricorso ai documenti e la valentia dell’esposizione, sia pur capziosa e spesso contraddittoria, come quando, pur di screditare il santo, abbracciano insieme la tesi dell’acido fenico e il “prodotto di origine isterica”. Dato che l’isteria è fuori da ogni categoria scientifica da tre quarti di secolo, si appellano a una più recente e moderna diagnosi - disturbo istrionico della personalità - illudendosi di liquidare millenni di vita spirituale, dalle estasi di Santa Teresa alle ascensioni di San Giovanni della Croce, dalla trance degli sciamani al samadhi degli orientali. 

Tra tutti i libri il migliore, alla fin fine, è quello che ha costruito Lui con le risposte alle 142 domande del Visitatore apostolico nel 1921, ora consultabili. Naturalmente va tenuto conto del condizionamento di chi si trova di fronte a un inquisitore. Non poteva certo mentire, l’obbediente frate, e neppure rispondere, come faceva con tutti: “Guagliò, quante ne vuoi sapè”, ma neanche abbandonarsi e dilungarsi. Ci si sorveglia in simili frangenti, ogni cosa può assumere un risvolto diabolico in certi contesti. Più sciolto e sentito l’epistolario, in particolare la ricca corrispondenza con il suo padre spirituale. Leggere un epistolario è faticoso: ci sono continue ripetizioni, notizie non pregnanti, lettere poco significative, salti temporali anche lunghi, anche se perseverando ci si può imbattere in intuizioni di altissima teologia o in passi di profondità poetica degna dei più grandi mistici.

Non è poi si abbia tanto bisogno di un gran libro sul Santo, specie in Puglia, dove chiunque conosce decine di famiglie che hanno avuto a che fare con PP.: innumerevoli gli aneddoti che attestano la sua chiaroveggenza, la sua preveggenza e quell’altro incredibile potere che se non è la bilocazione è qualcosa di molto simile. Io stesso ho vegliato il figlio di un amico che si è risvegliato dal coma grazie all’assistenza di un frate sconosciuto (solo dopo, imbattendosi in un santino, ha riconosciuto Padre Pio). E’ normalissimo, qui, che questa presenza sia avvertita come quotidiana, familiare: nessuno si meraviglia nell’ascoltare le risposte che Padre Pio dispensava ai visitatori prima ancora che si avvicinassero. E tuttavia questi frammenti di soprannaturale non significano nulla. Potrebbe trattarsi di fenomeni paranormali, consueti nello sciamanesimo o nella stregoneria. La stessa Chiesa che lo ha fatto Santo - ma potrebbe aver sbagliato dopo anzi che prima - aveva sentito puzza di zolfo: se quei cosacci che lo tormentavano di notte fossero stati padroni di lui anche durante il giorno? Ecco un argomento poco affrontato: “Le lotte col demonio sono un titolo di santità?” Le storie dei santi, dei profeti, di Cristo stesso sembrano costellate di lotte simili ma quelle di Padre Pio, mai risolte, danno l’idea di una non compiuta elevazione spirituale. Sono, del resto, collegate alle stimmate, che a parere di alcuni sono il segno di un gradino relativamente basso della condizione spirituale: un’energia rivolta contro di sé, non liberata. Questa condizione cupa denota una “diversità”: le lotte, le punizioni, potrebbero rivelare, secondo certe idee poco ortodosse, la incapacità di corazzarsi contro le energie negative che vengono allontanate dai miracolati. Una deficienza di santità, insomma. Sarà così? Di certo un argomento del genere non può essere affrontato né da scettici, né da pie donne né da esoteristi.

Non c’è insomma una penna che sia riuscita a restituire la grandezza e la complessità di uno degli uomini più noti del pianeta. Non c’è da stupirsi tanto, se pure Orio Vergani, a san Giovanni Rotondo nel 1950 per il Corriere, doveva arrendersi alla constatazione che “tutto il mio giornalismo, tutto il mio mestiere, tutte le mie domande e tutte le mie parole si perdevano come uno spillo in un pagliaio davanti all’estremità di ciò che i miei occhi vedevano e di cui, in verità, i miei occhi, che pur ne hanno viste tante, non sapevano saziarsi, tanto era misteriosa quella semplice immagine, tanto era profondo l’abisso di interrogativi che mi veniva aperto da quella semplice immagine di frate contadino”. Gli scrittori di casa nostra, poi, non hanno tempo per il Medio Evo, si dedicano a cronache più recenti e precarie, massimamente al crimine. Ma, se anche volessero, è troppo tardi: il Santo è morto da tempo e sono pochi quelli che hanno potuto conoscerlo. 

In questi casi, di solito, ci si affida alla posterità, a uno storico ferrato che – con l’accesso ai documenti successivi al 1939 ora non consultabili, compresa una cronistoria del suo padre spirituale – possa regalarci un ritratto accurato, completo e distaccato. Ma che ce ne faremo? Perché il distacco dovrebbe essere la dote migliore per accostarsi agli eventi vitali? Abbiamo avuto un Santo con gli attributi a due passi da casa e attendiamo speranzosi un libro di storia come tanti, come quelli che ci raccontano vite di settecento anni fa, scientificamente costruiti con resoconti di terza mano e scartoffie polverose. Che ce lo abbiamo avuto a fare sto Santo? Uno sfracello d’uomo e nessuno a tampinarlo con una penna al vanadio e un cuore maggiorato – sia pure scettico perché, come scriveva Roberto Calasso commentando un passo di Sainte-Beuve su Angélique de Saint-Jean d’Arnauld d’Andilly: “Il Moderno non può credere in modo troppo compatto, ma non perché non voglia credere: un’altra, dura devozione gli impone di aderire a una certa falsità, quanto basta per dare respiro all’immaginazione”. 


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