I sospetti di un altro io

2008-10-19 07:51:36

 

micame, di Livio Borriello

 

Diffido degli zibaldoni perché non puoi utilizzarli seguendo le istruzioni per l’uso inserite da Calvino all’inizio di Se una notte d’inverno un viaggiatorele numerose pagine colme di esortazioni quasi ipnotiche a distendersi, a eliminare accuratamente tutte le possibili distrazioni per immergersi

 

proficuamente in una continuata e appagante lettura. Gli zibaldoni devi leggerli per forza a saltelli. Al cesso? In auto? Quelli con la zeta maiuscola li puoi tenere sul comodino e usarli come breviario, aprirli a caso, a caccia del passo illuminante, o almeno calzante, come gli oracoli dell’I ching. A ogni modo non sai mai quando è il momento giusto per aprirli e il tempo che passa tra una consultazione e l’altra ti impedisce di restare nel mondo dell’autore, di cogliere quel particolare sentire che unifica tutti i rivoli.

 

D’altro canto, quando ti stanchi di narrativa insulsa (in certi momenti di esaltazione fondamentalista le narrazioni appaiono tutte insopportabilmente diluite) non puoi che rivolgerti al pensiero grezzo, al giudizio crudo, al grumo di narrazione nella sua essenzialità, nella sua verità. Sì, sì, la verità non esiste in nessun genere letterario, sappiamo bene che non vi è nulla di più artificioso del frammento ‘spontaneo’, che anche i più intimi dei diari (anzi, come ci insegna Tanizaki, soprattutto quelli più intimi, più sotto ‘chiave’) sono fatti per essere letti da qualcuno e che se anche l’estensore fosse l’unico destinatario, beh, avrebbe anche in quel caso la necessità di ornare la sua storia, di celare i suoi demoni. Diciamo allora che si avverte il bisogno di qualcosa di più immediato, la necessità di andare a tastare certe percezioni cruciali senza doverle ricercare in una narrazione ancorata alle regole (molto spesso quelle da manuale di sceneggiatura), cogliere i pensieri prima che vengano stiracchiati per organizzati in saggio, in sistema. Sperando di non imbattersi nel tipico libro di aforismi, che costringono l’autore a mostrarsi spiritoso, ovvero scettico, cinico, iconoclasta. O in uno di quei tomi che sono una protrusione dell’Ego.

 

Per fortuna questo libro (micame, Livio Borriello, Orientexpress, pp. 200, € 10,00) non è un immersione nei fondali limacciosi dell’io e non è un libro di aforismi. Non perché la forma aforistica non abbia la sua rilevanza ma perché i motti risultano necessari, quasi subiti, inscritti nella parabola della dismissione dell’io (l’identità è un movimento impossibile). Una parabola solo in parte affidata al pensiero: la ricchezza di questo libro casualmente misogino, che è fresco, vivo, e spinge spesso al sorriso (non fate caso alla copertina per nulla attraente, anzi tombale) sta nella esposizione di avvenimenti (organizzati a volte in microracconti), nella descrizione di brevissime attrazioni fatali, nella trattazione di stati di sospensione, nell’alternanza di battutacce e brani di finissima grana poetica. Date precise, a tratti, rendono inopinatamente diaristiche riflessioni che si immaginerebbero atemporali o avvenimenti che si presumevano interscambiabili. L’accumulo appare casuale finché non scopri che ogni svagatezza, ogni eventucolo, ogni variazione sul tema, si inserisce in una griglia d’acciaio.

 

Borriello non è autore da esibirsi in virtuosismi: se anche ha lavorato di lima, ha lasciato nel testo più di una banalità, magari additata, commentata ironicamente, ma non espunta. Cercare di camuffarla con una costruzione involuta o un termine più prezioso sarebbe una dannosa forzatura: il suo compito è quello di fornire una scansione esatta ma soprattutto completa del suo percepire. Perché scrivere vale solo come esplorazione e annessione di nuove lande percettive, isolamento ed estrazione di un dato infinitesimo dall’infinitamente possibile. Il pensatore avellinese annota quello che ha da dire e costruisce il calco di una persona. Non un pieno, ma il vuoto, negativo, il non io. Borriello avverte, come Carmelo Bene, l’attrazione dell’inorganico. La prorompente sensualità meridionale ha sempre un fondo cupo, mortuario. La volontà di dissolversi.

 

Borriello cerca una parola biologica (la scrittura è una specie di fuoriuscita dal corpo per schiacciamento, come la polpa degli insetti) e questo potrebbe far pensare a una chiusura materialistica, a un percorso deterministico . Non è così: il corpo (segnale indebolito, degradato, di qualcosa di remoto a cui cerco di risalire) è il punto di partenza solo perché è nel corpo che va ricercato il punto d’intersezione con ciò che lo attraversa.

 

Con una Mappa iniziale e una suddivisione in parti, comprese alcune sottosezioni non contemplate dall’indice, Borriello ha cercato di incasellare il percorso dal sé al non sé, partendo dalle schegge psicologiche delle prime due sezioni per arrivare, attraverso una sezione erotica, alla scrittura fenomenologica delle ultime due, l’ultima in particolare, dove i pensieri divengonoSovrappensieri. Qui sovrappensiero non sta a indicare l’immersione nei propri pensieri ma l’affollarsi, nella opportuna distrazione da sé, di quelli impersonali (collettivi?) sopra (non sotto) la linea del conscio (pensieri soprannaturali?). Ma sono suddivisioni ingannevoli, perché in micame la corporeità è diffusa ovunque mentre il pensiero domina nel canto sensuale della Sciamana e le epifanie sono sempre in agguato: l’intero percorso è presente in ogni piccola parte.

 

Mica me. A occupare Borriello sono i “discorsi impersonali da cui si lascia attraversare un io allentato”. Borriello ha compreso che noi non parliamo, siamo parlati, non pensiamo, siamo pensati. Ciò che conta è fuori di noi. Chi scrive è qualcun altro, qualcosa d’altro. Lo stato di grazia è quello falsamente comico del Totò nello sketch dello schiaffeggiato per errore di persona. Ma come, quello ti gonfia di ceffoni, e tu ridi? E che - risponde il Principe - mi chiamo Antonio, io? Lo scambio di persona, l’equivoco della barzelletta, è l’unica condizione accettabile: tutto accade sempre a qualcun altro, che osserviamo con affetto e distacco allo stesso tempo. ‘Mica me’ quello preso a ceffoni. Ho un altro nome, io, un’altra essenza. Lo schiaffeggiatore non conosce il mio nome segreto.

 

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