Downshifting in Salento

2010-09-20 09:00:18

 

sul Corriere della Sera - Puglia, 19 Settembre 2010

 

A vela con Perotti

 

Ce n’è di gente così, specie dalle nostre parti. Da parecchio tempo ragazzi con carriera più che avviata mandano tutto al diavolo, come ha fatto un mio compaesano, tra i pochi esperti di diritto internazionale dell’energia, che ha mollato la BP per farsi casa a poco prezzo nel Villaggio Resta, agglomerato d’era fascista a due passi da porto Selvaggio e non lontano da Lecce.

 

 Oppure la carriera non l’hanno mai cominciata, preferendo contratti di pochi mesi o chiedendo aspettative per girare il mondo in autostop. Persone che quando leggono Adesso basta, il libro di Simone Perotti da cui Francesco Piccolo sta traendo una sceneggiatura (non capisco come farà ma, but, è un mio problema) trovano che abbia scoperto l’acqua calda: ma a chi vuole insegnare a vivere questo qui.

Non comprendono che il Perotti ha fatto fare loro il salto di qualità. Per quanto fosse salda la loro opinione di sé, agli occhi del mondo erano sfigati. Perdenti, inadeguati, patetici. Ora sono fighi. Ora che il Perotti ha santificato certe scelte di vita, importando la parolina inglese, downshifter, per chi fa un passo indietro e abbandona la carriera, la città, il consumismo. Il successo mediatico del libro di Perotti, ex manager passato al charter ed – eventualmente – all’attività di imbianchino, ha fatto divenire trendy questo genere di svolte. 

Adesso basta è un libro per ricchi. Un’esortazione agli ex colleghi, antica come il mondo - era già tutto in Seneca - ma attualizzata nei dettagli e nelle cifre, perché si rivolgano a ciò che conta davvero nell’esistenza, facciano a meno del superfluo e soprattutto allunghino il più possibile l’elenco dei beni da includere nel superfluo. Ma, but, l’invito è valido anche per i non ricchi: ci sono centinaia di migliaia di persone che vivono da sempre con le cifre ritenute adeguate da Perotti e conoscono meglio di lui tutti i trucchi per sfangarla ma sono mentalmente orientati al possesso, coatti del desiderio, galeotti del lui ce l’ha e io no. 

Simone Perotti dovrebbe in questi giorni essere a Otranto – venti permettendo - ma l’ho raggiunto prima, nelle isole ioniche, dove svolge la sua attuale attività sul suo Beneteau in coppia con il dodici metri del compagno d’avventure Giampietro, il mitico Capitano Barbossa (non dateli del downshifter che s’incazza: anche da ricercatore alla facoltà di Biologia non guadagnava niente). Non è una crociera qualunque, ovviamente: si tratta di 2500 miglia sulla rotta di Ulisse (ma, but, secondo Gilbert Pillot, che propende per una navigazione atlantica dell’eroe, non è la rotta giusta) scaglionate in settimane ma, but, più che da ulissidi i due equipaggi sono composti da ben poco pazienti discendenti di Penelope. Una di queste è stata Capitano di Marina, e al povero Ulisse viene da mettersi sull’attenti. Ma, pronta al cambiamento come gli altri sedici della compagnia, tutti attratti dal libro del Perotti, ha poi lavorato per il Garante della Privacy e ora è al Ministero delle Finanze. Lei è più un ‘upshifter’, a ben vedere, ma molti su queste due barche hanno fatto scelte più coraggiose o le meditano. 

Una settimana su una barca a vela di medie dimensioni costituisce un corso accelerato di downshifting, si impara immediatamente a fare a meno di migliaia di cose ‘indispensabili’: al secondo giorno solo Paolo, manager di una piattaforma petrolifera, aveva ancora al polso l’orologio. Chi sceglie la barca a vela ha adottato uno stile di pensiero, se non di vita. E se c’è bonaccia e si va a motore per una settimana non se la prende, se per avaria si saltano le spiagge di Antipaxos per oziare al Marina di Gouvia alza le spalle, se non si visita il monastero si consola con un aperitivo. C’è sempre una rada carina dove fare il bagno e guardare la luna che sorge e chiedersi cosa siano quelle strisce rosse sui monti d’Albania fino a convincersi che si tratta di un incendio di proporzioni mostruose, restando trasognati a guardarlo nel vento caldo un po’ vergognosi di godersi un dramma come fosse uno spettacolo pirotecnico. Succede, sì, di parlare di libri (c’è anche un’altra scrittrice a bordo) o di sfiorare qualche discorso serio ma perlopiù si balla sulle compilation (per il prossimo trasferimento Giampietro ha pronta l’opera omnia di Vasco, tredici ore non stop) e ci si abbandona a interminabili aperitivi con il tranquillo bianco greco, non eccelso ma mai pericoloso. Si preparano insalatone e pastoni con quello che c’è, quello che avanza. Soprattutto ci si esercita nel tormentone della settimana che è in inglese perchè c’è una ragazza londinese di origine georgiana che non conosce l’italiano e non sta bene escluderla, così tutti parlano inglese. 

Questo viaggio è all’insegna del B & B. Che non è il Bed and Breakfast e neppure il Boat and Breakfast che pure si va affermando. La prima B è quella di but, usato la prima volta per sconfessare un giudizio diplomaticamente favorevole su un seccatore e poi divenuto termine finale di ogni considerazione. Se a chi la enunciava capitava di ometterlo qualcun altro alzava il ditino: BUT, senza ovviamente aggiungere altro. C’è sempre un but, ragazzi, guardate l’altra faccia. Un’altra opinione o un’altra eventualità. E poi c’è la B di both, immancabile risposta a ogni richiesta di scelta. Non c’è posto per l’accetta, occorre guardare al risvolto di ogni cosa e alla veridicità di affermazioni apparentemente inconciliabili. Both, entrambe. Così, i bicchieri levati alla luna, ci si rende conto di essere approdati involontariamente a una conclusione di grande spessore filosofico. A chiunque si lascia scappare una affermazione perentoria qualcuno lancia un but. Voglio fare downshifting. But…

 

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