Nelle mute

2007-08-13 12:01:39

 

Un omaggio a Raffaele La Capria

 

La spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro, avanza verso di lui e pare immobile, sospesa, come un aereo quando lo vedi sbucare ancora silenzioso nel cerchio tranquillo del mattino.            (Ferito a morte)

 

Ci pisciamo addosso. E’ il freddo, o la pressione. C’è un riflesso, un dislocamento del sangue, cose di quando eravamo pesci, e non puoi tenertela per sei ore. Adesso qualche azienda sta praticando delle aperture a velcro nel neoprene dei pantaloni ma a noi, in fondo, il caldo di quel liquido che si diffonde nella muta fa piacere. 

 

Prima di andare a pesca ci spalmiamo la Fissan. Serve per la pelle dietro le ginocchia: con il continuo pinneggiare, il nylon - o il neoprene spaccato, o la pellicola di titanio - sfregano e scavano. Con il supporto macerante del sale e del piscio. Roba da neonati. Infatti è una regressione, no? l’immersione. Dentro le acque, dentro gli antri. E regressione - alla preistoria - è la caccia. Per la verità, mi sento più evoluto nella mia muta che alla scrivania, ma la chiamano regressione.


Sapete, non sempre tutto va bene, sott’acqua. Ci sono tanti piccoli problemi che possono rovinare la giornata. Per esempio l’assetto. In apnea non si usa il giubbetto equilibratore e allora basta che metti i calzari, perché l’assetto, giù, non sia quello giusto. Basta che la quota vari rispetto a quella solita di pesca, basta addirittura che tu abbia scoreggiato di più. Ma poi ci sono quei momenti in cui la piombatura è perfetta, e a trenta centimetri dal fondo sei perfettamente senza peso. Neutro, si dice. Neutro ma non estraneo. Indistinto forse sì: tutt’uno con il resto della flora e della fauna, con l’elemento stesso, l’acqua. Anche grazie alla mimetizzazione delle mute (e ormai anche di fucili, maschere, pinne). 
 

 

Neutro ma non inanimato. Vivo come non mai. Tranquillamente vigile. Attenzione fluttuante, durchschwebend (così medita l’adepto, così l’analista ascolta e guarda). Non pensi alla direzione, volteggi sul fondo aggirando le asperità, scavalcando ostacoli. Con la testa. Non perché pensi ma perché il movimento parte dal collo. Il corpo, senza peso, segue. Allah non conta il tempo che l’uomo passa cacciando. Sì, a volte i musulmani c’azzeccano. 
 

 

L’animale è il tuo scopo, il tuo doppio, la tua divinità. Nulla è più vicino all’approssimarsi di un dio dell’apparizione di una corvina. Prima le labbra truccate, bianche come se usasse lo stick. Un profilo arrotondato in alto, dietro il capo, nobile, bronzeo, con quest’ampia velatura delle pinne, apparentemente inutilizzate: le pinne sembrano investite da una brezza, attraversate da un’ondulazione, una ola sensuale. E quest’incresparsi della parte terminale dorata delle pinne dorsali e pettorali, le porta avanti pianissimo, con moto lento, uniforme. Più una sospensione che un procedere. Sospesa nel tempo, sospesa ai fili invisibili, misteriosi, del destino. Ma se premi il grilletto di un oleopneumatico, questi fucili ormai in disuso, il rumore del pistone la fa scattare come un altro proiettile e dove c’era la corvina ora non c’è nulla. 

C’è una concezione orientale della sospensione del respiro come mezzo imprescindibile per l’effettiva liberazione dalla ruota (nirbikalpa samadhi). Finché utilizziamo l’aria che ci circonda siamo in debito con la sfera mondana. La capacità di entrare in qualsiasi momento in questo stato di estasi immobile e senza respiro è l’unica prova che ci si trova dinanzi a un maestro. Noi, di sicuro, abbandoniamo la terra, entriamo in un altro universo. E quel tempo, davvero, è sottratto alla vita comune, ai debiti terrestri. Siamo altro in quei lunghi minuti. Né uomini, né pesci. La vita è sospesa perché il fiato è sospeso. Perché si è senza peso. E perché si è in attesa. Attendiamo l’apparizione come pastorelli in una grotta. Ma poi uccidiamo i nostri dei. Con una saetta. Piuttosto silenziosa ultimamente (grazie all’adozione degli antichi fucili tahitiani, l’arbalete a elastici). Nel loro Olimpo, da estranei, da rapinatori.

Non è che pensiamo in questi termini, di solito. Altre frasi ci passano per la testa. Questa, stasera, mangia con me. Dove credi di andare? Valutiamo se il pesce davanti all’arpione sia compatibile con il tipo di preparazione culinaria che si va apprestando per la sera. Ci descriviamo le prede, come se ne stessimo parlando agli amici, con nomi storpiati (il ciuccio, per un vecchio e stanco sarago, lo spigolone per un grosso branzino). Accogliamo il risuonare di vecchi ritornelli che vengono a occupare il silenzio, lasciamo che scandiscano i respiri della ventilazione. I pescatori di perle del Mar Rosso ritmano l’ossigenazione con i versetti del Corano, a noi può capitare una canzone di Vasco. Non urliamo, come fanno i polinesiani, alla fine dell’espirazione (mantieni il silenzio, iniziato). 
 

 

L’iperventilazione non consiste tanto - come credono i profani - nel saturarsi di ossigeno con l’inspirazione quanto nell’espirare a fondo: eliminazione dell’anidride carbonica. Ed è bene espirare tanto a fondo da ridurre quasi a zero il volume residuo d’aria che resta imprigionato nelle vie aeree. Coloro che spingono fuori l’anima e inspirano sono prossimi alla liberazione riportava Giuliano il teurgo negli Oracoli caldaici. 

Siamo sempre molto concentrati, giù. Ma qualcuno, ultimamente, distogliendosi dall’animale, ha preso a godersi il luogo. Non le bellezze - non siamo nel Mar Rosso o fuori la punta nord dell’Asinara, e alla meraviglia barocca di certe nostre fessure carsiche siamo ormai insensibili - ma la quota, la pura sensazione della profondità. Che non dovrebbe essere avvertibile, introflessione del timpano a parte. Eppure, se avvengono modificazioni così importanti nel sistema cardiocircolatorio, l’umore non può non esserne influenzato. Se sei sufficientemente in profondità, un paio di decine di metri, sembra scomparire la fame d’aria delle quote più accessibili (è la pressione parziale dell’ossigeno che aumenta) e una pericolosa sensazione di tranquillità ti assale. Così ti puoi girare a pancia in su e guardare la superficie lontana, le increspature rimpicciolite. E’ quasi un sacrilegio, non si fa: è sempre il fondo che si guarda, sempre, da prima della capovolta fino all’emersione (i movimenti più rivelatori possono essere scorti proprio in fine di risalita). Solo se ti sei attardato troppo guardi in su, per regolarti, per rinfrancarti, ma proprio negli ultimi metri, prima sarebbe peggio. 
 

 

E’ così inusuale, questa superficie vista dal fondo, che quasi ti sgomenta. Ma poi ti tranquillizzi: sei dentro la tua boccia di vetro, invulnerabile. Puoi guardare una bollicina che esce dalla maschera salire verso l’alto. Normalmente sarebbe uno stupido errore: a meno che non serva ad attrarre la curiosità di un dentice lontano, il rumore dell’aria che fuoriesce non può che spaventare il pesce che stai accostando. Ma adesso te ne freghi e quell’aria preziosa che liberi dalla maschera è la prova fisica della tua potenza, del tuo dominio: disponi di tanta di quell’aria, la sai adoperare così bene, che puoi permetterti di disperderla nel mare. Poi risali usando un braccio come per scalare. Non serve ma ti dà l’idea della solidità dell’acqua. 

Ma perché uno così non si limita a fotografare? E’ la solita obiezione della vecchia signora alle corride del dottor Hemingstein. No, le schermaglie non possono bastare. La natura, il silenzio, la bellezza, già. Tutto questo è turismo. Ma della natura si è parte, per davvero, solo quando ne diventiamo uno degli elementi, il predatore in questo caso. Altrimenti non si può infrangere lo schermo. Se non sei teso all’atto, compreso nell’atto, tutto il resto è televisione in ammollo. Si conosce solo nella caccia. Ritrovarsi, straniati, nella natura è abbastanza usuale. Nell’uccisione si è la natura. 
Anche il colpo mancato fa parte del corso delle cose. Ma non puoi non dirti che se hai mancato non eri abbastanza in sintonia con quel mondo. Non hai depensato a sufficienza. 

Le movenze dei pesci sono affascinanti, ma che ne può sapere un Geo&Geo dell’effetto - del senso - che acquistano giù il riflesso su una scaglia, la secchezza di un colpo di coda o un’esitazione interminabile, quando il diaframma batte come un secondo cuore per effetto dell’ipercapnìa, mentre resisti contro ogni ragionevolezza perché la spigoladeve venire verso di te, la tua mission la condiziona, la guida, la chiama. Ma no, non devi chiamare, non devi contaminare il fluido con vibrazioni ansiose, non devi far pesare lo sguardo, non devi lasciare che scorga il bianco dei tuoi occhi. Lascia libera la mente, lasciati catturare insieme a lei. Concentrati sul tuo diaframma e non lasciarti sopraffare dall’avidità. Stai pronto ad abbandonare. 
 

 

L’orgasmo è necessario. Neanche il Tantra, che prescrive un infinità di atti sessuali anorgasmici, si sogna di abolirlo del tutto. E l’orgasmo è la vibrazione sul palmo, il sussulto dell’asta, la nuvola di sabbia, il raspare delle spine dorsali sulla roccia. E’ il peso. Il peso dell’asta, la prova dell’avvenuta incarnazione. Un’immagine fuggevole, un’alterità inafferrabile, diventa carne per te.

 

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Questa estate il Corriere del Mezzogiorno ha chiesto nuovamente agli scrittori pugliesi di scegliere un romanzo famoso e dal suo incipit costruire una storia ambientata nella nostra regione. Per questo pezzo, pubblicato il 12 agosto 2007, ho scelto il libro imprescindibile per tutti noi, il Grande Romanzo del sud, molto più attuale dei mille pubblicati dopo.

In epigrafe avrebbe dovuto esserci questo brano:


Così, io voglio immaginare il poeta come un essere pieno di risorse e di astuzie, apparentemente addormentato nel centro immaginario della sua opera ancora increata per meglio sorvegliare l’istante decisivo della propria potenza, il quale rappresenta la sua preda. Nella profondità vaga del suo sguardo si tendono tutte le forze del desiderio, tutte le energie dell’istinto. Là, attenta a tutti gli imprevisti, tra cui sceglie il proprio cibo, oscuramente al centro delle trame e delle arpe segrete che ha derivato dal linguaggio, e i cui fili si intrecciano tra loro in una perenne, dolcissima vibrazione, una misteriosa Aracne, musa cacciatrice, spia.
Paul Valéry, VARIETA’ 

ma ho temuto di concorrere all'abuso di citazioni in esergo ridicolizzato qui:

http://www.linus.net/hdoc/libri/libri.asp?idlibri=110&startposition=1


 


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Commenti: 1
  • #1

    Francesco Lanzo (lunedì, 14 gennaio 2013 16:01)

    Caro Elio, tornato alle solite faccende cittadine, il tuo racconto ha riacceso in me movenze estive che accolgo sempre volentieri. Un bellissimo pezzo, dritto come una fiocinata. Lanzo
    http://illanzillotto.splinder.com

    2007-09-24 00:02:08