Volubilità

2007-04-03 16:21:12

 

Perché si mette su un cd invece di un altro? Inutile dire che, tralasciando i fondamentalisti “solo jazz” e i tetragoni “solo seria” (ma anche lì c’è Beethoven che ti schianta all’inizio e Vivaldi che ti accarezza immediatamente mentre poi si ‘capisce’ Bach - quelli che lo suonano, soprattutto - o si divinizza Mahler e non puoi più


sopportare il Bolero o Per Elisa e neppure la Cavalcata per non parlare della Marcia di Radetzky), di solito ce n’è uno per ogni periodo della tua vita.


Ma non sono queste fasi a interessarmi: parlo delle microfasi, quelle settimanali o addirittura orarie. Il risveglio è il risveglio (preferisci farti cullare nell’intorpidimento o vuoi che ti scuotano? E’ questione di carattere, probabilmente), la notte è la notte. Pretendono onde sonore diverse. E poi c’è il sentimento prevalente di una giornata o di un periodo più lungo. Non si è sempre dello stesso umore. Allora ci sono diversi modi per scegliere l’accompagnamento musicale adatto.

Si può decidere di amplificare il sentimento: sei a terra e ti trascini allo stereo per sparare il Concierto de Aranjuez dell’orchestra di Gil Evans con Miles Davis. Ruoti a tre quarti la manopola del volume perché l’emissione ti finisca, ti stendi sul divano come fosse un catafalco e ti ravvoltoli nell’emissione sonora come in un sudario. Di solito l’esecuzione ha un effetto catartico. Dopo aver partecipato al tuo funerale, ti rialzi, serio e consapevole del dramma ma pensando di poter continuare a vivere, dopo tutto. Oppure sei arrabbiato col mondo e metti su dell’heavy metal, che ti fa incazzare ancor di più, fino a strozzarti. Trovando magari che gli urlacci e le schitarrate più che veicolo di ribellione sono un’ulteriore aggressione del mondo cattivo diretta a te.

Si può decidere di contrastare decisamente la depressione, e questo è molto difficile: un bamboleggiante ritmo latino stride talmente col tuo sentimento da irritarti profondamente. Ci sono timbri beffardi che sembra stiano beffeggiando proprio – e soltanto - te. Confermano l’idea che il mondo ti irrida. Non puoi sopportarlo neanche per un secondo. Bisogna trovare qualcosa di molto sereno che non sia superficiale. Un’impresa. Giusto qualche capolavoro, Mozart, forse, i Beatles.

C’è una terza possibilità: trovare qualcosa di sufficientemente malinconico da non urtare la tua tristezza ma abbastanza carezzevole da lenirla, Sitting on the dock of the bay, ad esempio, così struggente ma così cool. In alcuni casi puoi sentire il bisogno di ripercorrere con attenzione degli ottimi versi in italiano, Conte, Ferretti, Fossati, Panella o puoi decidere che nessuna parola comprensibile debba interferire con i tuoi pensieri e che, se parola deve esserci, sia straniera, puro suono. A volte sei così irritato e confuso che non sopporti davvero nulla, non c’è niente che ti vada bene, è l’idea stessa di musica che ti fa scattare. Allora metti su la radio, un notiziario, qualsiasi cosa. Non sei davvero interessato a quello che si dice ma fai della voce un accompagnamento sonoro.

Il capitolo radio non si esaurisce qui, naturalmente. La radio è riposante: ti consente di non scegliere. E c’è l’aspetto novità: la radio ti propone cose nuove (sempre di meno, ormai, tranne qualche programma deputato, meglio andare su Pandora.com se vuoi davvero scoprire qualcosa) oppure qualcosa di vecchio ma di ‘diverso’: per quanto grande sia la tua collezione possono sempre trasmettere qualcosa che non hai. Soprattutto puoi ascoltare senza vergogna roba nazionalpopolare che non ti sogneresti mai di inserire deliberatamente. Lasci fare. E questo introduce un aspetto fondamentale: la condivisione. Il più coinvolgente dei brani, proprio quello che trovi sublime, può risultare freddo a un ascolto solitario. Non puoi dire: ascolta. Ma sapere che altri – tanti - lo stanno ascoltando, e soprattutto che qualcuno lo ha selezionato, qualcuno che si presuppone ‘addetto’, qualcuno che te lo rammenta, te lo propone, te lo porge, te lo fa sentire di più.

Ma anche quando sei su, che potresti fischiettare senza vergogna Singing in the rain, hai diverse scelte: non necessariamente devi cavalcare l’allegria, anzi, questo potrebbe essere il momento giusto per quei buoni pezzi così nuovi e interessanti ma un po’ troppo cupi per una giornata normale. Quando stai bene puoi contemplare a pie’ fermo le profondità, gettare un’occhiata sugli abissi, affrontare roba complessa oppure sonorità al limite dello stridente come quelle di Bjork. Insomma, potresti castigare il tuo ingiustificato ottimismo - offensivo per gli dei - con un penitenziale Requiem mozartiano.

La gamma è infinita. Occorrerebbe trovare abbinamenti per la soddisfatta ferocia (Nyman?), l’incedere olimpico (Pretenders?), il romanticismo scettico (Leonard Cohen?), la tenue nostalgia (Sergio Mendes?), l’allegria sbracata e un po’ struggente (Manu Chao?), l’intorpidimento alcolico (ci sono ritmi strascicati, dai Creedence a Chris Rea a Kris Kristofferson, adatti solo a una leggera sbronza).

Queste semplici considerazioni hanno ripreso a ronzarmi in mente quando ho letto di un esperimento condotto in ambito psicologico: gruppi di studenti sono stati sottoposti a un test che consisteva, apparentemente, nel formare in breve tempo frasi compiute con una serie di parole sparse. Un qualsiasi test intellettivo, insomma. Ma fuori dall’aula del test, nei corridoi, erano state preparate trappole per gli studenti: gente che ti versava bicchieri addosso o sbarrava il passaggio chiacchierando. E i gruppi a cui erano state sottoposte parole come rabbia, insofferenza, odio, sangue, reagivano in maniera molto più aggressiva di quelli che avevano lavorato, per brevissimo tempo, con parole come amore, pace, prati, stelle e così via. Se qualcosa di così freddo come le parole - non sapientemente elaborate per provocare risposte emotive ma manovrate distrattamente per superare un quiz - può causare simili mutamenti nel carattere, cosa possono combinare una musica possente e un testo significativo? Quando i gruppi religiosi avversavano il rock – satanico era l’aggettivo – non avevano forse tutti i torti, e non mi riferisco solo alle canzoni volutamente malvagie, quelle con le esortazioni subliminali incise al rovescio.

E le immagini? Sono di una prepotenza non ostacolabile. Però, forse, anche lì, è necessaria la predisposizione: non posso dimenticare che Lezioni di piano, uno dei film che più ho amato e rivisto – soprattutto riascoltato - al primo approccio l’ho sopportato per intero solo perché non ero andato al cinema con la mia macchina, ma con quella di amici. Non vedevo l’ora di andarmene: quella sera avrei avuto bisogno di un’ambientazione contemporanea, di qualcosa di scattante, di divertente.

Ma arriviamo al nostro vizio: perché prendiamo in mano un libro invece di un altro? Difficile rispondere, anche perché un libro si rilegge di rado (capita molto più spesso di rivedere un film, e per diverse volte) e la prima volta che ti ritrovi un libro in mano ce l’hai perché è quello che è uscito di recente o perché in quei giorni te lo ha prestato un amico. Di solito, poi, il momento di inizio della lettura è lontanissimo da quello dell’atto d’acquisto. Comunemente, però, un lettore forte cinque o sei libri intonsi tra cui scegliere li ha a disposizione. A quel punto puoi ritrovarti in una fase razionale in cui ti chiedi seriamente perché mai dovresti perdere il tuo tempo seguendo le vicende immaginarie di improbabili – o troppo probabili - personaggi. A che ti serve sapere chi ha ammazzato l’allibratore cinese, e come finirà il matrimonio in crisi di tizio o l’interrogarsi sulla carriera di caio? Oppure puoi sentire che i disastri del pianeta non ti riguardano minimamente, che conoscere in dettaglio tragedie sulle quali non puoi intervenire in nessun modo è sciocco e morboso. Del resto, se non si è costretti professionalmente, di solito si legge narrativa. E quale? A pensarci bene, non è nei romanzi che si cerca la conferma del proprio stato d’animo. Per quello va bene la poesia. Rileggere versi dolenti, o metafisici, o giocosi, è di sicuro un modo per rafforzare l’emozione, crogiolarcisi dentro.

Ma un libro di narrativa è sempre un modo di evadere. Non mi riferisco alla narrativa propriamente d’evasione e neppure a quel mainstream che viene definito consolatorio (ma quando, esattamente, consolatorio è divenuto un insulto?), a quel genere di romanzi, che, anche senza lieto fine, ci confermano nella nostra idea del mondo. Anche il più tosto e sperimentale dei romanzi ci porta fuori, completamente fuori. Se non è fuori dal nostro tempo e da nostro paese, è fuori da noi. E’ sempre un altro il protagonista. Anche quando l’autore si è sforzato, per motivi magari commerciali, di tratteggiare una figura comune, il più possibile simile all’eventuale lettore, questo personaggio sarà sempre “un po’” diverso, farà qualcosa di diverso, prenderà il caffé in un bar che non conosciamo. Certo, riconosceremo delle azioni, delle emozioni, diremo già, proprio così, riconosceremo un nostro simile ma gli sviluppi ci porteranno altrove.

Insomma, a un libro chiediamo ‘portaci via’. Via da noi. Inevitabilmente. Qualcuno direbbe: portaci su un altro piano, portaci su. Alcuni sostengono di cercare nei libri il proprio habitat, il proprio tempo. Ma non è mai del tutto vero. Cerchiamo coordinate familiari, certo, ma solo per schizzare più lontano. Un puro rispecchiamento della vita sarebbe noioso, intollerabile. E’ l’equivoco del realismo. Del cinema tutti sanno – o dovrebbero sapere – che il realismo non dà nessuna gioia, nessuna illuminazione. Il realismo vero finirebbe per coincidere non col documentario, che è pur sempre scelta di soggetti, di inquadrature, di tempi, ma addirittura con i filmati della videosorveglianza (ho visto in alcuni negozi dei monitor a colori: ricerca di un maggiore realismo?). Tutti sanno che il cinema non può limitarsi a registrare. Ma in letteratura, forse perché la letteratura è stata, per tanto tempo, storia, manuale, atto notarile, si continua a richiedere aderenza al presente, al reale.

Invece la richiesta è, sempre, prendimi e portami via. E qui non c’è nessun bisogno di esotismo. L’altro mondo è lo scrittore stesso. I libri davvero coinvolgenti non sono solo scritti bene. Sono scritti in quel modo inconfondibile che è solo di quell’autore. Sono un modo – l’unico modo - di conoscere intimamente l’autore. Senti la sua essenza, percepisci il suo sguardo, sei posseduto dall’autore e lo possiedi, interamente. E’ un viaggio dentro un altro, una conoscenza carnale, un atto amoroso.

Eccomi fuori strada, perso su qualche complanare. Eppure no: ritorna la domanda iniziale: chi scelgo per questo accoppiamento? Un autore in piena sintonia o il più lontano dal mio carattere? Bisogna scegliere bene perché anche con un libro ti può succedere di trovarlo insopportabile un giorno e magnifico due mesi dopo.

 

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